L’insostenibile pesantezza del simbolo: «CHE ORA È LAGGIÙ?»
«Che ora è laggiù?» ripropone il rapporto col padre (come ne «Il fiume»), l’inutile ricerca dell’amore (come in «Vive l’amour») e la solitudine (come in «The Hole», che è l’unico film di Ming-Liang a presentare una remota traccia di speranza). Un giovane taiwanese, venditore di orologi, deve affrontare una serie di avvenimenti: la morte del padre, la convinzione della madre che questi comunque tornerà, l’insistenza di una ragazza in partenza per Parigi che vorrebbe proprio il suo orologio.
Da tutto questo derivano manie e ossessioni: quelle del giovane di spostare le lancette di tutti gli orologi sull’ora di Parigi e di non usare mai il bagno, ma di orinare sempre in sacchetti o bottiglie; quelle della madre di cambiare gli orari dei pasti, di sigillare porte e finestre, di attendere il marito che potrebbe anche tornare in forma di scarafaggio o pesce.
La conclusione è, naturalmente, fatalista: la madre si rifugerà nell’autoerotismo, la ragazza a Parigi si intratterrà con una donna, il giovane andrà con una prostituta che, al mattino, gli ruberà tutti gli orologi. E il padre defunto ricompare a Parigi.
Preso atto del ricorrere di simbolismi precisi (il tempo in forma di orologi, il cibo, la famiglia come luogo di silenzio, rapporti d’amore impossibili in quanto scanditi dall’assenza dell’oggetto amato) e di un certo rigore di rappresentazione, bisogna dire che le ossessioni di Ming-Liang sembrano sempre più autocitazioni e come tali incapaci di portare a qualcosa di costruttivo o di diverso dal più assoluto nichilismo. Senza contare che i simbolismi sono talmente invadenti da appesantire il racconto fino all’annullamento di qualunque destinazione diversa dal simbolo stesso.