L’inconsistente pesantezza dell’essere: «FEMME FATALE»
La «femme fatale» è una bionda che, d’accordo con due complici, durante il Festival di Cannes ruba a una modella alcuni preziosissimi gioielli. Ma poi fugge con i preziosi, cambia identità e, scambiata da qualcuno per un’aspirante suicida, ne sottrae documenti e un biglietto d’aereo per gli Stati Uniti. Un fotografo, però, l’ha immortalata per le vie di Parigi e, senza saperlo, ha in mano un tesoro. Qualche anno dopo i loro destini si incroceranno di nuovo: lei è diventata moglie di un ambasciatore, lui continua a fotografarla anche quando non dovrebbe. Mentre le carte continuano a rimescolarsi, nessuno può contare su un destino già scritto…
«Femme fatale» è un film da vedere, non da raccontare. Perché il fascino degli equilibrismi di De Palma, messo nero su bianco, rivela tutti i suoi limiti. L’immagine, invece, può anche ipnotizzare: quando le due donne si accarezzano nella doccia durante l’inaugurazione del Festival di Cannes, quando un incidente stradale cambia di vittime e assassini per riconfigurare la storia, quando un tuffo nella Senna porta la protagonista a risvegliarsi nella vasca da bagno, De Palma si conferma gran burattinaio, innamorato della macchina da presa quanto disinteressato all’essere umano che cattura con l’obiettivo. È lui la star del film: né Antonio Banderas né Rebecca Romijn-Stamos, che sulla scacchiera della vita non esistono e su quella del cinema restano comparse. Alfred Hitchcock, di cui sono citati «La donna che visse due volte» e «Marnie», abita su un altro pianeta.