Lincoln

Tanto per cominciare, se sono molti gli scritti sarà anche complessa la scelta delle fonti. In secondo luogo, c’è un ostacolo durissimo da abbattere quando si affrontano personaggi del genere: la retorica. Il fatto che autore di «Lincoln» sia Steven Spielberg non è una garanzia a prescindere, soprattutto se consideriamo che il regista arriva alla realizzazione di un progetto avviato nel 2005 proprio a ridosso di uno dei suoi film più patriottici ed edulcorati, «War Horse», che poteva lasciar presagire il peggio.

Accade invece che Spielberg, intelligente e sensibile al di là della fama di creatore di blockbuster, decida per una volta di fare ciò che è meglio per il film: un passo indietro nella magniloquenza dello stile e un passo avanti nello spazio concesso al lavoro dello sceneggiatore Tony Kushner e degli attori tutti, dal protagonista Daniel Day-Lewis all’ultima delle comparse. Perché «Lincoln» è un film di dialoghi, di approfondimenti psicologici, di ragionevole obiettività storica, molto più di quanto non sia un film di effetti speciali, di passione e di sentimenti fiammeggianti. È un film che si propone di raccontare, seguendo gli ultimi tre mesi di vita del Presidente, quanto complessa sia stata la sua esistenza, quanto la sua attività e quanto numerose e non sempre ortodosse possano essere le porte attraversando le quali si entra nella Storia.

L’anno è il 1865. Un anno dopo il rinnovo del mandato presidenziale e nel pieno della guerra di Secessione, la questione prioritaria per Lincoln è l’approvazione del Tredicesimo Emendamento che di fatto sancirebbe la fine della schiavitù. Se per far questo è necessario dirottare in altro luogo una delegazione dei Confederati pronta a discutere le condizioni della resa allungando di qualche mese i tempi della guerra e, una volta fatto ciò, acquistare i voti di qualche esponente democratico per ottenere la maggioranza indispensabile, non sarà certo il Presidente a tirarsi indietro. Anche sapendo che ciò che sta facendo non è esattamente nel pieno rispetto delle regole.

In un film che mantiene dall’inizio alla fine uno stile antiretorico e per quanto possibile rigoroso ed essenziale, avremmo evitato di mostrare la morte del Presidente con successiva riproposta di un discorso storico (quello di Gettysburg) che in effetti è l’unica concessione alla retorica patriottica presente nel film. Quel che resta, tuttavia, basta e avanza per porre «Lincoln» ai vertici dell’analisi storica parallelamente allo studio di un singolo personaggio. Si capisce molto bene, infatti, come per ottenere determinati risultati, anche alti, sia talvolta necessario infrangere qualche regola seguendo le teorizzazioni di Machiavelli senza applicarle al tornaconto personale. In questo Spielberg, che ha preso spunto dal libro di Doris Kearns Goodwin, dimostra una notevole maturità andando anche oltre le occasionali cadute sentimentali di «Schindler’s List».

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza il contributo del direttore della fotografia Janusz Kaminski (molto più importante del commento musicale di John Williams) e di un gruppo di attori straordinari su cui spiccano Tommy Lee Jones (Thaddeus Stevens) e David Strathairn (il segretario di Stato Seward).

Quanto a Daniel Day-Lewis, che ha a lungo esitato prima di accettare la parte, risulta talmente umile nel suo approccio al personaggio da poter dare l’impressione di tenersi in disparte anche quando fa la Storia: un’interpretazione quasi perfetta cui non giova, nell’edizione italiana, il doppiaggio di Pierfrancesco Favino, impostato e quasi distaccato. Per chi ama le statistiche, ricordiamo che Lincoln è stato rappresentato almeno trenta volte sullo schermo. Di questa di Spielberg ci ricorderemo.

LINCOLN (Id.) di Steven Spielberg. Con Daniel Day-Lewis, Sally Field, David Strathairn, Tommy Lee Jones, Joseph Gordon-Levitt, James Spader. USA 2012; Storico; Colore