Life
Diciamo che una comune biografia avrebbe enfatizzato le tre interpretazioni da protagonista dell’attore e sicuramente si sarebbe soffermata sullo schianto mortale della Porsche il 30 settembre 1955. «Life» non è niente di tutto questo. Se proprio volessimo attaccarci a quelle coincidenze che fanno gioire gli appassionati di cabala, potremmo notare come l’attore chiamato a interpretare James Dean si chiama Dane (anagramma di Dean) DeHaan (Dean con l’aggiunta di una H e di una A). Curioso, forse buffo, ma non ci aiuterebbe a capire il film.
Nel 1955, appena finite le riprese de «La valle dell’Eden» di Elia Kazan e poche settimane prima di iniziare «Gioventù bruciata» di Nicholas Ray, James Dean, un ragazzo dell’Indiana rimasto presto orfano e allevato dagli zii, incontra Dennis Stock, fotografo dell’agenzia Magnum alla ricerca del servizio giusto per guadagnare la copertina di «Life». Tra i due nasce un’intesa. Stock vede in lui potenzialità enormi associate a un profondo senso delle radici. Dean trova in lui un complice per le sue fughe da Hollywood e soprattutto qualcuno che non lo tratta come una star. E con lui tornerà a casa per l’ultima volta presenziando a un ballo scolastico e guardando con malinconia un mondo che ormai appartiene al passato.
È sicuramente un Dean fuori del mito quello rappresentato con rispetto e rimpianto da Corbijn. Ancora di più, è un Dean che, a un passo dal successo vero, sembra quasi rimpiangere un ambiente e persone che potevano garantirgli quel prezioso bene chiamato normalità. Non c’è dubbio che le luci della ribalta non gli piacevano. E a questo punto non c’è dubbio che l’essere stato tirato a forza nello star system abbia seriamente compromesso i suoi equilibri portandolo a guadagnare la fama di ribelle e ad assumere una serie di atteggiamenti strafottenti e fuori binario che potrebbero anche essere alla radice della sua prematura scomparsa.
Per evidenziare la portata epocale del personaggio, Corbijn gli affianca Stock che, in quanto fotografo, vede in lui la fotogenia, la solitudine, gli scenari nei quali si muove, riuscendo in un certo senso a catturarne l’anima in quelle fotografie pubblicate su «Life» (senza l’onore della copertina) e rimaste a testimonianza di una grande personalità sparita troppo presto. E Corbijn, che conosce bene la tecnica e l’importanza della fotografia, lascia Stock (cioè Robert Pattinson, dei due attori il più famoso) quasi dietro le quinte identificandolo spesso con la macchina fotografica e immergendolo in una penombra quasi costante, di modo che tutta la luce cada sull’altro, simbolo di una generazione e di tutte le buone occasioni lasciate per strada.
Dane DeHaan interpreta James Dean senza il fastidio della somiglianza a tutti i costi. Lo interpreta con mezzitoni che equivalgono a una straordinaria potenza e gli consegnano il film su un piatto d’argento. Nessuna delle tonalità è forzata: ogni sorriso, ogni tristezza, ogni rimpianto, ogni rabbia sono attentamente misurati e consegnati a un pubblico che ci si augura attento e partecipe.
Così «Life» non è né un santino né un melodramma né un’immagine del mito. È semplicemente la rappresentazione di un uomo (forse un ragazzo) trasformato in ribelle dal mondo, ma che in cuor suo aveva un gran bisogno di sicurezze anche quotidiane, di piccole cose che la fama spazzò via senza ritorno. E anche questo narrato per immagini, senza parole inutili e soprattutto senza retorica. È evidente che per Corbijn, molto attento alla cultura giovanile, James Dean è un’icona inespressa che il mondo volle mito. «Life» riesce ad esprimere questo attraverso la metafora della fotografia, che immortala ciò che comunque morirà e poi passa ad altro. Così è la vita.