Lettere di uno sconosciuto
Può sembrare difficile individuare una continuità nella carriera di Zhang Yimou. «Sorgo rosso», «Ju Dou», «Lanterne rosse», «La storia di Qiu-Ju» raccontavano storie della Cina del passato. Poi «Shanghai Triad» e «Keep Cool», tra noir e commedia. Quindi la trilogia wuxia composta da «Hero», «La foresta dei pugnali volanti» e «La città proibita». La Cina contemporanea raccontata in «Non uno di meno» e «La strada verso casa». Nuovamente il noir con «Sangue facile», remake di «Blood Simple» dei Coen. E ora il melodramma sentimentale con «Lettere di uno sconosciuto».
Dunque, Yimou persegue un progetto unitario o è un eclettico frequentatore di generi cinematografici? Posto che l’eclettismo non sarebbe di per sé un difetto (vogliamo parlare di Stanley Kubrick?), il filo che lega tutta l’opera dell’autore cinese è sottilmente politico: in ogni suo film è presente un elemento di critica nei confronti del regime, quindi del potere, quindi del partito, che per un certo periodo ha reso Yimou molto poco gradito all’establishment cinese. Poi la visibilità internazionale, i molti premi guadagnati, la sua astuzia nel nascondersi dietro le spade dei guerrieri, le armi dei gangster o il potere dei sentimenti hanno fatto sì che Yimou fosse riabilitato e che potesse proseguire nel proprio lavoro. «Lettere di uno sconosciuto», che sarebbe un errore confondere con un melodramma grondante retorica e sentimento facile, è probabilmente il suo film più sottilmente autobiografico.
Lu Yanshi, colpevole di opposizione al regime di Mao e alla sua rivoluzione culturale, è allontanato dalla famiglia (la moglie Feng Wanyu e la figlia Dan Dan) e imprigionato. Quando, riuscito a fuggire, cercherà di rivedere la moglie, verrà definitivamente arrestato. Passeranno dieci anni prima che sia riabilitato e possa tornare a casa, dove però la moglie ne ha perso la memoria e non lo riconosce più come marito, continuando ad attenderlo alla stazione il 5 di ogni mese. E Lu, che la ama profondamente, si presterà a starle vicino interpretando di volta in volta il personaggio che lei vuole nella speranza di poter in qualche modo riaccendere in lei la scintilla del ricordo.
È evidente che il contenitore del melodramma nasconde in realtà un intento violentemente critico nei confronti di un regime che, con le epurazioni e le forzate separazioni fatte passare per rivoluzione culturale, non ha soltanto portato a una popolazione di integrati e omologati: in alcuni casi ha anche portato le persone a dimenticare fisicamente i propri cari e, riabilitazione o meno, a non essere più in grado di riconoscerli. «Perché riconosce tanta gente e non riconosce soltanto me?» si chiede Lu. Non disponendo di una risposta logica, accetta di essere qualcun altro pur di non essere costretto a stare lontano dalla moglie. E così prima le accorda il pianoforte, poi le legge le proprie lettere scrivendone anche di nuove per far riavvicinare madre e figlia e infine, in un finale tanto quieto e sommesso quanto straziante, l’accompagna alla stazione spingendole la sedia a rotelle e reggendo un cartello su cui è scritto il proprio nome.
Yimou poteva cadere nelle trappole della facile commozione, dei luoghi comuni, dello schematismo drammatico. Invece, lavorando quasi esclusivamente in interni quasi a voler rimarcare il dolore della perdita di memoria proprio tra le mura domestiche, ottiene un risultato mai banale grazie alla precisa volontà di non perdere mai di vista ciò che ha causato tutto questo. L’unico schematismo, comunque necessario per lo sviluppo del racconto, è nel personaggio della figlia, fedele al regime e responsabile dell’arresto del padre. Ma Gong Li e Dao Ming Chen sono due attori straordinari capaci di trasformare Lu e l’insegnante Yu nella cattiva coscienza di una nazione intera.