«LETTERE DAL SAHARA»
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A ben guardare, «Lettere dal Sahara» avrebbe potuto essere una fiction televisiva. La storia del senegalese Assane, costretto a lasciare il paese natìo per andare a lavorare in Italia; il suo viaggio per mare affidato a «gente senza cuore»; il suo arrivo a Lampedusa con la prospettiva di essere messo su un aereo e rimandato a casa; la sua fuga attraverso l’Italia fino a Torino; l’incontro con persone disposte ad aiutarlo gratuitamente; l’ottenimento del permesso di soggiorno e le prime esperienze lavorative; il trauma del razzismo stupido, con un pestaggio che lo conduce a una crisi che maturerà in lui la decisione di tornare in Senegal. Tutto questo, se condotto con toni melodrammatici e con qualche attore amato dal pubblico, poteva equivalere a un’audience sicura.
De Seta, invece, ha lavorato come sa. Con attori non professionisti, seguendo ritmi differenziati a seconda dell’ambientazione europea o africana, con un’attenzione particolare a che le cose quotidiane restassero tali senza ammantarsi di straordinario, senza lasciarsi guidare da intenti propagandistici o politici (che oggi sono la stessa cosa), alla ricerca della cosa più semplice: la verità dei fatti. Così, oltre agli unanimi consensi alla mostra di Venezia, l’autore guadagna anche applausi nelle sale in cui si proietta il film. Il che vuol dire che in «Lettere dal Sahara» c’è qualcosa, anzi molto, che va oltre la fiction: c’è onestà, c’è ansia di giustizia, c’è invito alla solidarietà, c’è speranza. Con una sola paura: che di tutto questo possa aver ragione la stupidità di pochi. Magari di chi pensa che il deserto sia il Sahara e non vede quello vero intorno e dentro di sé.
In questo senso «Lettere dal Sahara» è un film altamente cristiano: nel sostenere a spada tratta che non serve a niente lamentarci di quel che ci manca, quando sarebbe più opportuno ringraziare di ciò che ci è dato. Lo capisce bene il professore di filosofia senegalese quando, ad Assane in crisi profonda, dice di tornare in Italia da quelli che lo amano senza preoccuparsi di quelli che lo odiano. «Siamo diversi» dice, «e ringrazio Dio di avere un’altra cultura». Che non è né presunzione né alterigia: è un dato di fatto che ai piccoli è spesso chiaro, mentre i grandi tendono a dimenticarlo in nome di una superiorità cui credono soltanto loro.
Ecco, tutto questo ci riporta alla saggezza dell’età. Non sarà una verità assoluta, ma Vittorio De Seta ci rientra a pieno titolo.