«LETTERE DA IWO JIMA»

DI FRANCESCO MININNIIl colore è lo stesso di «Flags of Our Fathers»: color sabbia, più ombre che luci, con l’oscurità che si illumina d’improvviso del rosso delle esplosioni. La distanza dalla patria è la stessa, miglia e miglia lontano. L’oggetto del contendere è lo stesso, quell’isola di Iwo Jima sulla quale non cresce niente e che qualcuno ritenne strategicamente fondamentale. Quel che cambia è lo scenario umano: non più i ragazzi americani, ma quelli giapponesi.

Ed è proprio questo il motivo per cui «Lettere da Iwo Jima» è un film non sapremmo dire se più bello, ma sicuramente più importante del precedente. Bisogna riconoscere a Clint Eastwood, al di là dei meriti tecnici, fotografici e musicali, un gran coraggio: affrontare un pezzo di storia patria dal punto di vista del nemico era un’idea inconcepibile anche soltanto venti o trent’anni fa, forse realizzabile soltanto in chiave farsesca (vedi «1941» di Spielberg) o comunque rigorosamente filoamericana. Qui, invece, Eastwood non esita a calarsi anima e corpo nella mentalità nipponica in quanto tale, non in quanto nemico e, basandosi sulle lettere dal fronte e sui diari del generale Kuribayashi, ottiene un risultato di valore assoluto.

Ciò che non riuscì a Steven Spielberg, frenato proprio dall’amor di patria e soprattutto dal gusto del kolossal, in «Salvate il soldato Ryan», riesce a lui in «Lettere da Iwo Jima»: un film scarno ed essenziale, doloroso e toccante, ricco di umanità, soprattutto puntiglioso nella volontà di dimostrare che il soldato, sia esso americano o giapponese, ha i medesimi diritti e doveri. Che il concetto di eroismo va attentamente rivalutato e probabilmente esteso a chiunque sia inviato in prima linea. E che la morte rende tutti uguali.

E badate bene: Clint Eastwood non pretende di essere un innovatore o uno sperimentatore. Conosce il cinema classico e sa quando usare un’immagine di repertorio, come l’arrivo sulla spiaggia di un ufficiale campione olimpico di equitazione a cavallo del suo destriero italiano. Sa anche quando usare l’evidenza della morte senza scadere nel compiacimento o nello spettacolare. E sa, soprattutto, che i giapponesi parlano la loro lingua e che si tratta di una lingua fatta di fonemi, sfumature, intonazioni più di quanto non lo siano altre: così «Lettere da Iwo Jima», parlato in giapponese e sottotitolato, assume tutte le caratteristiche del documento più onesto e obiettivo possibile, al punto da oscurare completamente il film americano che al Giappone si era maggiormente avvicinato, «L’ultimo samurai» di Edward Zwick. Qui lo spettatore è portato, anche più che in «Flags of Our Fathers», a convivere con i soldati e in un certo qual modo a trovarsi nella loro stessa condizione. Ed è qui che «Lettere da Iwo Jima» cessa di essere una rievocazione del lato giapponese del conflitto per trasformarsi nella più dura condanna di tutte le guerre, qualunque sia il colore della pelle dei contendenti. E per fare questo Eastwood ha scelto la semplicità: gli attori giusti, uno sceneggiatore giapponese e la stessa troupe di «Flags of Our Father».

LETTERE DA IWO JIMA (Letters from Iwo Jima) di Clint Eastwood. Con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara. USA 2006; Drammatico; Colore