L’estate delle arene, a ciascuno il suo film

A questo punto, per quanto se il problema fosse tutto nella crisi si dovrebbe comunque puntare alla minor spesa possibile, possono tornare utili le consuete arene estive che, al di là dell’illusione di un fresco che non è detto si realizzi, rappresentano comunque un momento di familiarità, socializzazione e, per quanto possibile, divertimento riproponendo le opere più (o meno) significative della stagione appena conclusa.

Si può cercare di vederne Il lato positivo (di David O. Russell) predisponendosi a una distrazione non necessariamente approfondita ma premiata con (troppe) nomination all’Oscar. Si può accettare La migliore offerta (di Giuseppe Tornatore) nella certezza di un meccanismo molto raffinato compromesso da una spiegazione finale troppo banalizzante. Si può sprofondare ne La grande bellezza (di Paolo Sorrentino) per accorgersi ben presto che a un titolo tristemente ironico fa riscontro un film decadente e sostanzialmente privo di speranza, a confronto del quale «La dolce vita» di Federico Fellini sembra comunque aperto a una conclusione a misura d’uomo.

Si può cercare di far propria una Educazione siberiana (di Gabriele Salvatores) che ci mette comunque a confronto con una cultura lontanissima e non semplice da capire, ma ricca di significati e di passione nel narrare. Si può prendere un Treno di notte per Lisbona (di Bille August) e accorgersi ben presto che non arriveremo da nessuna parte. Si può reclamare La parte degli angeli (di Ken Loach) in quello che è probabilmente il film meno polemico, arrabbiato e politico dell’autore inglese, per una volta colto a raccontare in scioltezza una favola sul whisky e sui giovani (quelli sì, sempre proletari).

Si può sostare Nella casa (di Patrice Leconte) e riscoprire il piacere di una narrazione surreale che rimescola le carte dell’esistenza senza vincitori né vinti. Si può mettersi a strepitare Come un tuono (di Derek Cianfrance) e venire spiazzati da una storia che parte come un thriller e finisce per investire problemi più sottilmente esistenziali. Al contrario, si può rispettare scrupolosamente La regola del silenzio (di Robert Redford) ed essere coinvolti in una profonda riflessione sullo scorrere del tempo e su quanto le persone possano cambiare a seguito di un semplice processo di maturazione interiore.

Si possono ripetere i gesti quotidiani Tutti i santi giorni (di Paolo Virzì) e trovarsi nella difficoltà di dover gestire il primo film improbabilmente ottimista dell’autore livornese. Si può assaggiare il Miele (di Valeria Golino) per scoprire che non ha poi un sapore così dolce come il titolo suggerirebbe. Ma si può anche ritrovarsi in bocca Un sapore di ruggine e ossa (di Jacques Audiard) chiedendosi in continuazione perché un regista così innamorato di se stesso trovi tanta difficoltà a raccontare cose semplici e debba per forza complicarle ad arte.

Si possono incontrare Il grande Gatsby (di Baz Luhrmann), Anna Karenina (di Joe Wright), Lincoln (di Steven Spielberg), La cuoca del presidente (di Christian Vincent), Paulette (di Jérôme Enrico), Django Unchained (di Quentin Tarantino), I Croods (di Chris Sanders), Monsieur Lazhar (di Philippe Falardeau), The Master (di Paul Thomas Anderson). E magari durante L’intervallo (di Leonardo Di Costanzo) scoprire Quando meno te lo aspetti (di Agnés Jaoui) film come Amour (di Michael Haneke), che danno un senso al nostro uscire di casa e al nostro ruolo di esseri pensanti. All’aperto, naturalmente, e in piena libertà di scelta e di giudizio. Viva la libertà (di Roberto Andò).