L’eccezione alla regola
Warren Beatty è stato molte cose nel corso della sua carriera: una promessa, una star, un sex-symbol, il fratello di Shirley MacLaine, un attore dalla limitata espressività. Ma quando ha deciso di passare dietro la macchina da presa, ha dimostrato di essere anche un intelligente elaboratore di tematiche complesse. Dopo un esordio brillante con «Il Paradiso può attendere», affiancato da Buck Henry, ha deciso di puntare più in alto: prima «Reds», rilettura della rivoluzione d’ottobre dal punto di vista del giornalista John Reed, poi «Dick Tracy», fumetto iperrealistico e fiammeggiante, poi «Bulworth il senatore», durissima requisitoria contro la politica e i suoi meccanismi. Adesso L’eccezione alla regola lo vede misurarsi con il personaggio controverso e sempre enigmatico di Howard Hughes, miliardario, costruttore di aerei, produttore cinematografico e (a detta dell’opinione pubblica) pazzo.
Hughes è stato già frequentato dal cinema: lo hanno interpretato George Peppard ne «L’uomo che non sapeva amare» (1964) di Edward Dmytryk, Jason Robards in «Una volta ho incontrato un miliardario» (1980) di Jonathan Demme e Leonardo DiCaprio in «The Aviator» (1994) di Martin Scorsese. I confronti, nel caso specifico, non interessano. A Warren Beatty importava rappresentare Howard Hughes anche al di fuori della sua complessa biografia, prendendolo come simbolo di qualcosa che molti chiamano sogno americano ma che, quando si scontra con la vita vera, può anche diventare un incubo. Il che, automaticamente, fa sì che L’eccezione alla regola si chiami fuori del gossip, dello scandalo e della caccia all’identificazione di personaggi che sono comunque presentati con i nomi cambiati. A Beatty non interessa la storia, ma le implicazioni che rendono Hughes un simbolo non confinato nel passato, ma vivo e attualissimo. L’impresa è tutt’altro che semplice, ma Beatty l’affronta con il piglio giusto e ottiene il risultato desiderato.
Marla Mabrey arriva a Hollywood con la madre sognando di diventare una grande attrice sotto l’ala di Howard Hughes. È il 1958. Le fa da autista l’ambizioso Frank Forbes. I giorni passano e Hughes continua ad essere un nome senza volto. Poi si materializza e tutto sembra essere legato alla sua approvazione, mentre in realtà c’è un fortissimo fattore di suggestione che nasconde le reali problematiche. Marla avrà un figlio da lui e se ne andrà alla domanda: «Quanti soldi vuoi spillarmi?». Frank rimarrà, sempre più a stretto contatto, per lasciare soltanto quando, cinque anni dopo, capirà come stanno le cose. Forse lui e Marla, da sempre innamorati, faranno un tentativo di uscirne insieme. Hughes continuerà con fissazioni, fobie, monomanie riuscendo comunque ad affondare la biografia non autorizzata di Richard Miskin e a rintuzzare l’accusa di follia e di incapacità.
È più che evidente che l’ego di Warren Beatty lo porta più volte a sovrapporsi a Hughes oscillando tra la critica e una sorta di reverenza verso il mito. Ma ci sono segnali precisi che indirizzano il film su un piano simbolico interessante. Da una parte il fatto che i tre protagonisti abbiano la stessa iniziale per nome e cognome (HH, MM, FF), dall’altra l’importanza essenziale di cui è investita la parola come mezzo di comunicazione ma anche di inganno, falsità e tradimento. In questo mix di giochi verbali, svetta la sordità di Hughes che quindi sarebbe un comunicatore incapace di ascoltare sia verità che menzogna. Così L’eccezione alla regola, apparentemente melodramma sentimentale, diventa la radiografia di un luogo conosciuto come fabbrica dei sogni che improvvisamente si trasforma in fabbrica di bugie. E, naturalmente, per quanto il sogno americano assuma i connotati dell’incubo, mantiene un ampio margine di meraviglia. È un mondo che Beatty conosce per esperienza diretta e che a ottant’anni ha deciso di rappresentare.