Le verità

Un autore straniero (nella fattispecie giapponese) chiamato a confrontarsi con la realtà di un paese che non è il suo (nella fattispecie la Francia) rischia di scontrarsi con ambienti, caratteri, abitudini, modi di fare e di dire che non conosce. Da uno scontro del genere uscirà un film riconoscibile nello stile, nel ritmo, nelle tematiche, ma sicuramente difficilissimo da valutare nella sua interezza e che soprattutto gli spettatori del paese ospitante saranno in grado di smontare a livello geografico, psicologico, locale.

Ecco perché, come Asghar Farhadi quando è andato a Parigi a girare Il passato, anche Hirokazu Kore-eda per Le verità non ha fatto altro che lavorare in interni evitando per quanto possibile di scendere in strada e riproponendo le tematiche familiari che lo hanno reso celebre nel mondo (Father and Son, Un affare di famiglia) senza pensare minimamente di fare un film sulla Francia.

In più, Kore-eda ha utilizzato come sfondo attivo il mondo del cinema, da cui un ulteriore carico di segreti che tutti conoscono, di bugie che a qualcuno continuano a sembrare verità, di vite che si vivono sotto i riflettori lasciando in penombra i rapporti veri. E, come Farhadi, ha fatto bene. Le verità (che in realtà nel titolo originale suona semplicemente La verità) è apparentemente la cronaca di un rapporto madre-figlia, ma in realtà va inteso come l’analisi del complesso rapporto tra verità e finzione.

Fabienne Daugeville è una diva intramontabile del cinema francese che, vicina agli ottant’anni, dà alle stampe un’autobiografia che dovrebbe essere una sorta di autocelebrazione. Nella circostanza, sua figlia Lumir, che fa la sceneggiatrice negli Stati Uniti e ha sposato Hank, un attore, torna a Parigi a trovarla con marito e figlia, Charlotte. La sua prima sorpresa è nello scoprire che il libro della madre non contiene alcuna verità. Questo la porta a ripercorrere il passato per prendere atto di come la carriera materna abbia sempre e comunque sopravanzato gli affetti familiari. Fabienne, d’altronde, sostiene che l’autobiografia è la sua e che sta a lei decidere cosa scrivere o meno. Mentre il nuovo film della madre procede aggiungendo ambiguità in quanto tratta un argomento che si sovrappone pericolosamente a eventi reali (ma sempre diversi), Lumir capisce di avere in comune con lei più di quanto vorrebbe. E Charlotte, che ancora riconosce le persone dal loro odore, vuole fare l’attrice.

Un argomento che teoricamente poteva dare il la a tutta una serie di annotazioni scontate, di situazioni d’archivio, di psicologia da salotto, è trattato da Kore-eda con una finezza e una profondità che lo rendono vivo, mai banale, nuovo anche in presenza di elementi che conoscevamo già. Una madre attrice (anzi, diva), una figlia cresciuta alla sua ombra e costretta a cambiare paese per avere una vita propria, un rapporto di profondo affetto e di irrimediabile conflittualità: sembra la situazione di Sinfonia d’autunno di Ingmar Bergman, dove madre e figlia erano entrambe pianiste ma divise da un ego incommensurabile.

Kore-eda, però, utilizza il cinema come luogo del confronto e mostra come al di là della tradizione si possa andare oltre. Così, utilizzando la casa di Fabienne come una sorta di prigione dorata, lascia che Catherine Deneuve e Juliette Binoche diano libero sfogo al loro essere non tanto madre e figlia, quanto attrici di due diverse generazioni. Da questo confronto talvolta implacabile nasce una bugia che aiuta a capire la verità. E il fatto che la villa, nel suo lato meridionale, abbia annessa una prigione (che non vedremo mai) ci indirizza verso la consapevolezza di un successo che va a braccetto con la maledizione. E, ben corrisposto da Deneuve e Binoche, Kore-eda si conferma maestro del presente e buon conoscitore del passato. Il futuro, va da sé, è molto simile a un buco nero.

LE VERITÀ (La vérité) di Hirokazu Kore-eda. Con Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Clémentine Grenier, Manon Clavel. FRANCIA 2019; Drammatico; Colore.