LE QUATTRO VOLTE

DI FRANCESCO MININNI

Come dice Pitagora, «Abbiamo in noi quattro vite successive, incastrate l’una dentro l’altra». Praticamente, oltre alla parte razionale, convivono in noi un minerale, un vegetale e un animale. Ragion per cui «abbiamo dunque in noi quattro vite distinte e dobbiamo quindi conoscerci quattro volte». Apparentemente sembra molto complicato, ma Michelangelo Frammartino, milanese di famiglia calabrese, lo rende semplice.

Il suo film «Le quattro volte», presentato a Cannes, è a tutti gli effetti un documentario. Ma, come per «Il pianeta azzurro» di Franco Piavoli, trova la catalogazione estremamente riduttiva e stretta. È un film sul ciclo della vita, quindi sulla giustapposizione tra vita e morte non come opposti in conflitto traumatico, ma come parti di un continuum che dalla creazione in poi ha costruito la storia del mondo. È un film bello e poetico che torna alle radici del cinema eliminando lo scoglio della parola e affidando tutto, proprio tutto, alla forza delle immagini e, soprattutto, al contributo di ogni spettatore che sarà autorizzato a dare a tali immagini l’interpretazione che più corrisponde alla propria sensibilità. E, sopra ogni altra cosa, è un’importante operazione culturale che, accantonando ragionamenti astrusi e interventi direzionali, torna a cercare le radici di un’esistenza semplice e importante prima che troppo progresso la faccia scomparire trasformandola in qualcosa di diverso.

La struttura quadripartita prevede il succedersi dei quattro elementi. C’è il pastore, vecchio e malato, che invece delle medicine prende ogni sera una dose di polvere di Chiesa sciolta nell’acqua. Alla sua morte, della quale saranno testimoni soltanto le sue capre e che avverrà in concomitanza con una rappresentazione paesana del Venerdì Santo, farà seguito la nascita del capretto bianco che, una notte d’inverno, si smarrirà sul monte venendo colto da una nevicata e morendo solo sotto un grande albero. Il medesimo albero sarà abbattuto dai paesani che lo utilizzeranno per la Festa dell’Albero (una sorta di altissimo albero della cuccagna su cui arrampicarsi per non vincere niente). Al termine della festa, l’albero sarà tagliato in pezzi e destinato a diventare carbone. L’ultima immagine mostra un camino fumante sul tetto di una casa. E così il ciclo continua.

Frammartino ha saputo, con semplicità e puntiglio, perseguire il proprio scopo senza lasciarsi neppure una volta tentare dall’intervenire nel racconto. Come faceva Piavoli, si limita a riprendere con pazienza e precisione l’impareggiabile spettacolo della natura nella sua continua evoluzione. Per questo motivo non c’è dolore artefatto nelle morti mostrate: che siano il pastore, il capretto o un albero: c’è sempre una continuità a far pensare che, comunque, niente è stato vano e soprattutto che niente finisce. In questo senso Frammartino si rivela pensatore finissimo e sostanzialmente controcorrente: la sua filosofia è quella dell’andare avanti secondo i dettami della natura, ovverosia senza mai dimenticare ciò che è stato prima e che con la sua (lunga, breve, pubblica, silenziosa) esistenza è entrato a far parte di un ciclo che di certo non sarà mai mortale. Ecco, «Le quattro volte» è, se proprio vogliamo dargli una definizione, uno straordinario inno alla vita che, come natura insegna, non è mai a senso unico: va e viene. L’albero muore e dà vita al carbone, il carbone muore e dà vita al calore: più chiaro di così.

In questa poesia silenziosa le parole sono soltanto fonemi distanti e incomprensibili: niente potrebbe essere più chiarificatore delle immagini accompagnate dai rumori della natura, dall’acqua al vento, dal belare delle capre al canto degli uccelli. E il pastore che, per curarsi, passa in Chiesa e si fa consegnare dalla perpetua una presa di polvere che, a quanto pare, non sarà così taumaturgica, è contemporaneamente l’immagine di un animismo popolare che ancora sopravvive e quella di una fede semplice e incrollabile che evoca i contadini bergamaschi cantati da Ermanno Olmi ne «L’albero degli zoccoli». Ne «Le quattro volte» c’è tanto, sicuramente più di quanto l’uomo moderno possa veramente capire. Soprattutto il valore del passato: esperienza, vissuto, tradizione. E siccome tutto ciò porta al rinnovarsi della vita, vuol dire che nel passato c’è il germe del futuro.

LE QUATTRO VOLTEdi Michelangelo Frammartino, ITALIA/GERMANIA/SVIZZERA 2010;Documentario; Colore