LARS E UNA RAGAZZA TUTTA SUA

di FRANCESCO MININNI

Che Lars Lindstrom viva in un paese frequentemente visitato dalla neve potrebbe far pensare a un’ambientazione nordeuropea. E invece siamo in America, nel Midwest. Dove c’è anche una dottoressa (una strizzacervelli) di nome Dagmar. E siamo comunque in America. E il film «Lars e una ragazza tutta sua» (traduzione impropria di «Lars and the Real Girl»), nonostante sia diretto da Craig Gillespie che è di origine australiana, è una produzione tutta americana. Eppure un film così, pensato e scritto da cervelli americani, deve avere per forza qualche componente esterna, un corpo estraneo capace di osservare, annotare e incidere a fondo di modo che una commedia surreale, paradossale e potenzialmente demenziale diventi alla fine la radiografia di una società. Lo ha scritto Nancy Oliver, alla sua prima sceneggiatura cinematografica dopo una lunga esperienza televisiva («Six Feet Under», serial di successo). Questi sono i dati in nostro possesso e non bastano ad arrivare a una conclusione scientifica. Se consideriamo «Betty Love» del canadese Neil LaBute e «The Truman Show» dell’australiano Peter Weir, può darsi che l’origine australiana di Gillespie faccia la differenza.

L’importante è non leggere il film dalla parte sbagliata. Così facendo, verrebbe fuori una storia graziosa ma sostanzialmente banale in cui il disadattato Lars, traumatizzato dal fatto di aver perso la madre al momento della nascita e dall’imminente maternità della cognata Karen, non solo rifiuta ogni contatto (anche fisico) con il prossimo, ma si inventa una compagna di vita ordinando via Internet una bambola a grandezza naturale che chiama Bianca e che impone a tutti come fosse una donna vera. Tutto ciò dovrebbe poi portare alla prevedibile guarigione e al recupero della normalità. Se «Lars e una ragazza tutta sua» fosse tutto qui, forse non ci saremmo disturbati a parlarne. Ma, a nostro modo di vedere, esiste una lettura più sottile e inquietante che rende il film, pur nella sua tendenza a semplificare i problemi e a schematizzare le situazioni, meritevole di un’attenzione non superficiale. Che riallaccia il film di Gillespie, in un certo senso, a «Simone» di Andrew Niccol, dove la diva virtuale utilizzata da Al Pacino diventava una realtà per tutti fino a una conclusione apparentemente sorridente ma in realtà spietata. Qui Bianca, che è palesemente una bambola e non può essere scambiata per una donna vera, è accettata da tutti perché, secondo i consigli della dottoressa che segue Lars, assecondarlo è l’unico sistema per aiutarlo a guarire. Il passaggio richiede una certa attenzione: nel progredire del racconto non è tanto la guarigione di Lars a tenere banco, quanto la progressiva discesa nella follia (tenera, ma pur sempre follia) dell’intero consesso sociale. Come dire che la benevola accettazione di Bianca da parte di tutti ha fatto sì che, per qualche strana magia, quella bambola prendesse per tutti la valenza di una donna vera. Da qui si arriva a una conclusione forse ovvia, ma ugualmente inquietante: non è Lars a guarire, sono tutti gli altri ad ammalarsi. Il percorso è guidato da un Ryan Gosling molto più sottile e sfumato di quanto non dicessero le sue precedenti interpretazioni. E, di seguito, da Emily Mortimer (la cognata), Paul Schneider (il fratello), Patricia Clarkson (la dottoressa) e dalla cittadinanza intera con ammirevole semplicità. E la conclusione, a questo punto per nulla difficile da comprendere, è la stessa urlata da Jack Nicholson alla fine de «Il Re dei Giardini di Marvin» di Bob Rafelson e che, se applicata alla società americana, dovrebbe dare ampio materiale su cui riflettere: «In questo manicomio, come si fa a capire chi é pazzo veramente?».

LARS E UNA RAGAZZA TUTTA SUA (Lars and the Real Girl) di Craig Gillespie. Con Ryan Gosling, Emily Mortimer, Paul Schneider, Patricia Clarkson. USA 2007; Commedia; Colore