L’anniversario: Cento Nino! Il percorso di un attore che ha saputo interrogarsi sulla fede
Come attore, Manfredi si è contraddistinto per una recitazione più sfaccettata e meno irruente dei colleghi, misurata e piena di tic, di frasi smozzicate e di gesti lasciati in sospeso, quasi a suggerire la fatica del pensiero ad adeguarsi alla realtà circostante. Il Nostro ha fatto di questo meccanismo recitativo una cifra stilistica che, nonostante fosse radicata nella tradizione regionale italiana (passava tranquillamente da un dialetto all’altro, pur privilegiando l’accento romanesco e, ancor di più, ciociaro), lo apparentava a certi commedianti americani come Jack Lemmon.
Dopo aver frequentato l’Accademia con Orazio Costa e aver fatto una lunga gavetta come doppiatore, spalla e comprimario, negli anni Sessanta finalmente esordisce come protagonista in una serie di commedie importanti, diretto dai grandi registi del periodo. Tra i suoi personaggi ve ne sono alcuni che hanno sfaccettature problematiche, come l’architetto di Il padre di famiglia (1967) o l’infermiere di C’eravamo tanto amati (1974), volti di una Sinistra italiana delusa dopo gli ideali della Resistenza. Ma ci sono anche i ritratti storici che gli ha ritagliato Luigi Magni, legati alle responsabilità del potere assoluto papalino in epoca risorgimentale: Nell’anno del Signore (1969), In nome del papa re (1977), In nome del popolo sovrano (1990). A parte, sempre con lo stesso regista, va considerato Secondo Ponzio Pilato (1987) dove incarna un personaggio emblematico per la storia cristiana: colui che, pur attratto dalla verità, non la sa riconoscere nel Giusto che ha di fronte e lo condanna a morte.
I dilemmi morali di queste caratterizzazioni hanno però il loro culmine in un film che Manfredi ha anche diretto, Per grazia ricevuta (1971). Si tratta di un’opera complessa, capace, pur nei toni allegri della commedia, di affrontare di petto un tema serio e in modo serio: la fede in Dio. Il protagonista, al quale Nino ha riservato più di un tratto autobiografico, in punto di morte ripensa alle fasi della sua vita nella quale si sono alternate esperienze di religiosità bigotta e superstiziosa ad altre in cui, per comodità, ha rinnegato tutto in nome del libero pensiero. Ma la questione di fondo resta: può l’uomo vivere senza Dio? Ed è possibile esprimere la propria fede in modo autentico, senza ricadere nelle forme sclerotizzate che la chiesa conserva? Domande, certo, non banali, a cui il film non riesce a dare risposta, ma almeno non lasciano lo spettatore indifferente.
Come tutti i mattatori del suo tipo, Manfredi ha sempre avuto bisogno di qualcuno che gli tenesse ben salde le briglie altrimenti tendeva a strabordare, a cercare il pezzo di bravura, l’assolo teatrale, mangiandosi il film e gli altri interpreti. E alle volte, come in Brutti, sporchi e cattivi (1976) ha perduto decisamente il senso della misura. L’esaurimento di ispirazione nella commedia all’italiana, a partire dagli anni Ottanta, ha visto anche lui vittima di un presenzialismo cinematografico che spesso non gli ha reso onore: pur di apparire sullo schermo, Manfredi ha preso parte anche a filmetti corrivi al fianco dei nuovi comici, oltre a moltiplicare le sue partecipazioni televisive che nulla hanno aggiunto al suo percorso attoriale. Eppure, proprio negli ultimi anni, la sua carriera ha avuto anche una svolta internazionale con titoli da noi pressoché sconosciuti, ma che meritano una riscoperta: da Napoli-Berlino, un taxi nella notte (1987) a La fine di un mistero (2003), suo ultimo film.