L’altro volto della speranza
Sinceramente, non siamo convinti che Aki Kaurismäki sia uno dei maestri del cinema contemporaneo. Il suo mondo marginale, i suoi personaggi surreali, le sue strade di periferia con la città sullo sfondo, i suoi sogni (talvolta alcolici) e i suoi bruschi risvegli, la sua tenerezza e la sua rabbia, la sua cultura cinematografica, la sua ostinazione alla ricerca di un mondo migliore lo rendono indubbiamente speciale, con uno stile diverso dagli altri, lontano da ogni buonismo, quindi ben consapevole di ingiustizie, ipocrisie e cattiverie dell’oggi. Ma, d’altra parte, esiste anche una maniera che lo porta a ripetersi nelle idee e nella loro rappresentazione che, talvolta, lo rende troppo uguale a se stesso quando sarebbe forse necessario un aggiornamento.
Eppure Kaurismäki mostra coerenza, inventiva e, nei casi migliori, poesia. Ma soprattutto sa ben vedere la differenza tra favola e realtà. Se «Miracolo a Le Havre» si poteva concedere il lusso, muovendosi nell’ambito di un racconto interamente simbolico, di addirittura quattro miracoli che pilotavano la vicenda verso il lieto fine, L’altro volto della speranza recupera in pieno la consapevolezza della contemporaneità. E Kaurismäki capisce che non sempre si può gabbare la Storia con l’utopia e che arriva anche il momento di pagare il conto all’umana cattiveria.
Il film procede su due binari che, inizialmente paralleli, finiscono per incrociarsi. Da una parte Khaled, profugo siriano che, attraversando confini e barriere, arriva a Helsinki e chiede asilo politico. Tutti sono educati, gentili, accoglienti. Ma il visto gli viene rifiutato ed è destinato al rimpatrio. Dall’altra Wilkström, rappresentante di camicie che, stanco del tran tran, lascia la moglie, vende tutto il campionario, vince una grossa somma al poker e acquista un ristorante mantenendone il personale. Khaled fugge prima di essere messo sull’aereo e, dovendo aspettare notizie della sorella Miriam persa nel viaggio, si fa assumere nel ristorante di Wilkström che gli fornisce documenti falsi e un posto per dormire. Ma, nonostante la buona gente, i solidali, quelli che aiutano e le speranze, c’è sempre una parte di mondo che si nutre della propria cattiveria. Ed è una parte pronta a colpire e a far male.
Kaurismäki si riconosce in poche battute: nel personaggio di Wilkström che unisce reale e surreale, nel personale del ristorante che si adatta alle varie tendenze e ai diversi menu, nei cantanti di strada che accompagnano l’azione, nel cagnolino (presenza fissa, che questa volta si chiama Koistinen come il protagonista de «Le luci della sera»), nel cameo della musa ispiratrice Kati Outinen cui è affidata una battuta secca che fotografa la Finlandia: «A Natale chiudo e mi trasferisco a Città del Messico. Ballerò la hula e berrò sakè: ho bisogno di un po’ d’azione dopo tanta pace e silenzio». E questo è il Kaurismäki che conosciamo, un po’ sorridente un po’ triste proprio come Chaplin. Poi, però, c’è Khaled che irrompe nel film come un uragano, che racconta la propria storia all’immigrazione in un lungo primo piano (e nella propria lingua), che davvero non ha alcuna voglia di scherzare e attende un giorno dopo l’altro che tanta brava gente (socialmente poco importante, purtroppo) riesca a far cambiare qualcosa. E Khaled capirà che al mondo c’è del buono e del cattivo. E che la bilancia pende ancora dalla parte del secondo.
Nonostante qualche ripetizione, Kaurismäki è riuscito a dare una rappresentazione tristemente poetica del mondo in cui viviamo e di tante cose che troppo spesso evitiamo di approfondire o proprio rifiutiamo di vedere. E il suo stile, apparentemente casuale, è in realtà frutto di un gran lavoro di preparazione e dell’umiltà di non volersi mai ergere a giudice o boia. Gli interessa soltanto prendere buona nota di quel che vede e di quel che vorrebbe vedere.
L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA (Toivon tuolla polen) di Aki Kaurismaki. Con Sherwan Haji,Sakari Kuosmanen, Ilkka Koivula, Nuppu Koivu. FINLANDIA 2017; Drammatico; Colore.