La vita di Adele

In un certo senso sembra che il regista tunisino, ormai naturalizzato francese, Abdellatif Kechiche abbia realizzato «La vita di Adele», ispirandosi al romanzo grafico di Julie Maroh «Il blu è un colore caldo», in prima battuta proprio per rendere omaggio a quel movimento che un po’ cambiò la storia del cinema e che evidentemente gli sta molto a cuore. Ecco perché la protagonista Adèle Exarchopoulos, che non è un campione di espressività, ha però la faccia giusta: imbronciata, innocente, stupita e aperta alle emozioni, capace di riportarci con uno sguardo a quegli anni ribelli.

Ma non basta: una famiglia tranquilla e popolare, un corso di letteratura su Marivaux, un’idea del mondo desunta dai libri nella quale irrompe improvvisa la forza della passione. Molte cose ci riportano a «I 400 colpi», «Fino all’ultimo respiro» e «Jules e Jim». Ma molte altre ci ricordano che nel frattempo i tempi sono cambiati e che, se una ragazza poco più che quindicenne va con un ragazzo perché le hanno detto che è giusto così, niente vieta che poco dopo la sua personale sensibilità la convinca che l’amore vero è altrove, in una donna dai capelli celesti, dai forti interessi culturali e dall’aria vissuta. Quindi, siccome al cuore non si comanda, si va avanti così.

Adèle è una studentessa di letteratura che, causa un classico colpo di fulmine, si innamora di Emma. La passione è forte, anche totalizzante. Adèle viene dalla media borghesia e la specialità del padre sono gli spaghetti col ragù. Emma invece ha una madre e un patrigno di ceto più elevato, che conoscono e approvano le sue tendenze e che mangiano ostriche. La convivenza, libera da una parte e clandestina dall’altra, potrebbe funzionare. Ma la mentalità più radicalmente borghese di Emma fa sì che il primo tradimento (con un uomo) di Adèle porti alla rottura insanabile.

Emma troverà un’altra donna (con bambina), Adèle resterà sola e innamorata.

Kechiche, che ha uno stile piuttosto riconoscibile e un certo acume psicologico, ha anche la presunzione di raccontare una storia che sembra un teorema universale e invece è soltanto un caso tra i tanti. Lo fa come sa: cioè, allungando i tempi del racconto, evitando tagli di montaggio troppo ravvicinati, accarezzando le due donne con la macchina da presa e catturando ogni attimo della loro storia, da quelli pubblici a quelli più intimi. Ne esce un film di tre ore che, pur lasciandosi apprezzare per qualità d’immagine e valori simbolici, metterà in crisi chiunque abbia qualche dubbio sull’amore rappresentato. Da parte nostra, siamo ancora convinti che non sempre il racconto di una storia d’amore possa mettere tutti d’accordo. E soprattutto che Kechiche, a quanto pare amante del realismo, abbia in realtà raccontato una specie di favola nella quale Biancaneve e la regina, invece di farsi la guerra, diventano amanti, si trovano in posti frequentati dove tutti le accettano o in posti dove non c’è nessuno a parte loro (normale in una camera da letto, più strano in un parco pubblico o in un bar).

Poi, mentre Adèle diventa maestra e mantiene uno spirito libero, Emma smette di avere i capelli celesti, si integra nel tessuto sociale e, pur rimanendo della sua idea, rinuncia a qualunque palese trasgressione. Così una si tiene gli spaghetti e l’altra va avanti con le ostriche. Non saremo certo noi a dire che «La vita di Adèle», premiato a Cannes con la Palma d’Oro, sia un brutto film. Ma non ci vergogniamo ad affermare che non è nostra intenzione abituarci a una visione parziale dell’esistenza che qualcuno vorrebbe far passare per normalità. E pensiamo seriamente che da qui all’omofobia ce ne corra.LA VITA DI ADELE (La vie d’Adèle – Chapitres 1 et 2) di Abdellatif Kechiche. Con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Aurélien Recoing. F/B/E 2013; Drammatico; Colore