«LA TIGRE E LA NEVE»

DI FRANCESCO MININNITrovandosi di fronte a un film (in quanto oggetto filmico) scombinato e imperfetto come «La tigre e la neve», il critico cinematografico potrebbe legittimamente smontarlo e dichiararne il fallimento. Ma sarebbe un uomo da poco. Perché, se è maestro Quentin Tarantino nella sua capacità di filmare alla perfezione stragi di ogni genere e giocattoli fini a se stessi, Roberto Benigni, comunicatore più che narratore, anche nell’incapacità di dare una forma compiuta alle proprie intuizioni, anche nel suo trovarsi continuamente sospeso tra farsa e tragedia, anche con tutte le imperfezioni e i difetti che il cinema evidenzia, può aspirare alla qualifica di «grande».

Per svariati motivi: primo fra tutti il rischio, accettato integralmente, di raccontare una storia che potrebbe non farlo riconoscere come giullare di Vergaio ma come speculatore di sentimenti; poi per il coraggio di raccontare amore e poesia in un momento in cui a vendere è soltanto la morte; ancora, per la ferma convinzione che con la forza dell’amore si abbatte ogni barriera (anche quelle della logica e della verosimiglianza); infine perché tutto questo non è dettato da calcolo commerciale, ma da un’interiore necessità che fa onore a chi la esterna e dà gioia a chi la riceve. Forse adesso è chiaro: questa volta non parleremo di cinema, ma di cose un po’ più importanti.

Il poeta Attilio ama una donna che vede soltanto in sogno. Quando un giorno la incontra, fa il possibile per esternarle il suo amore. Ma Vittoria, impegnata nella biografia del poeta islamico Fuad, parte per Bagdad dove, in seguito a un’esplosione, entra in coma con pochissime speranze di guarigione. Attilio, informato da Fuad, non ci pensa due volte e, rivoltando il mondo, riesce ad arrivare nella capitale. Assisterà Vittoria con tutto l’amore che può, trovando i medicinali e contribuendo al suo risveglio. Il ritorno in Italia potrebbe riservare qualche sorpresa.

Se un poeta che vive soltanto di poesia muore suicida e un altro che vive d’amore salva se stesso e la donna che ama, bisogna concludere che «La tigre e la neve», più che un inno alla poesia, è un inno all’amore. Innamorato della sua idea, Benigni travolge tutto: logica narrativa, logica elementare, ruoli dei personaggi, verosimiglianza, solidità della sceneggiatura. Potrebbe essere una Waterloo e invece è (per chi sia disposto a capirlo) un trionfo della sincerità. Con tutti i difetti di questo mondo: con il cielo finto di Bagdad, il sorriso dei soldati americani, la sopravvivenza oltre i confini del possibile, una sequenza onirica che avrebbe fatto inorridire Bunuel, una durata molto superiore al necessario e quant’altro. Il punto è che tutti i difetti di questo mondo non riescono a cancellare quella parolina «amore» gridata con la forza di un uragano e il talento di un giullare che, citando Cardarelli, Montale, Majakovskij, D’Annunzio, Tagore, Neruda, Eluard, Ezra Pound e persino Paolo Conte, nonché Sergio Leone e Charlie Chaplin, ci ricorda che Sant’Agostino disse «Ama e fa’ ciò che vuoi». E che a questo non c’è replica che tenga.

LA TIGRE E LA NEVE di Roberto Benigni. Con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Jean Reno. ITALIA 2005; Commedia; Colore