«LA TERRA DEI MORTI VIVENTI»

DI FRANCESCO MININNIMillenovecentosessantotto, 1978, 1985 e 2005: in quattro tappe e in quasi quarant’annni, George Romero ha inventato i morti viventi (chiamati zombi solo dal secondo film), li ha lanciati a testa bassa contro la società dei consumi, contro l’esercito, contro il quieto vivere, contro i grattacieli, li ha condotti lentamente a un a spettacolare evoluzione dando loro un leader, Big Daddy, e una parvenza di volontà che va oltre l’istinto omicida, e finalmente ci ha detto chiaramente contro cosa ha costretto l’establishment a combattere senza speranza.

«La terra dei morti viventi» non sarà l’episodio più riuscito della saga, ma varca qualche traguardo importante. Non è un horror: è piuttosto una storia molto triste e attraversata da imprevedibili squarci di livida poesia su un futuro che è già oggi. Gli zombi, poveretti, non sono più i cattivi da distruggere, ma gente che sta cercando un posto in cui vivere. I mostri non sono loro: sono quelli che, avendo la possibilità di ragionare e di decidere, pensano a sé rimandando a «dopo» la soluzione dei problemi. Ecco il trucco: di volta in volta abbiamo pensato che i morti viventi fossero mostri da eliminare, il proletariato in rivolta, gli indigenti e gli affamati con mali estremi ed estremi rimedi, ribelli generici dai connotati anarcoidi. Errore: i morti viventi sono quello che furono gli uccelli per Hitchcock. In psicologia si chiama il ritorno del rimosso. Quindi siamo noi, le nostre paure, la nostra vigliaccheria, la nostra pigrizia, il nostro egoismo. Non corrono, caracollano come sonnambuli, e ciò nonostante ci raggiungono sempre. Sono tutti i problemi non risolti in nome di pretese priorità: rimossi, non eliminati, attendono il momento buono per ripresentarsi in una forma che, stavolta, non potremo ignorare.

«La terra dei morti viventi», costato 18 milioni di dollari (poco, ma molto per Romero), è più un film d’azione che una lenta apocalisse. Vi si riconoscono tracce di Carpenter («Fantasmi da Marte») e di Anderson («Resident Evil»), a loro volta saccheggiatori di Romero. Presenta personaggi non particolarmente caratterizzati come il protagonista Riley (Simon Baker), lo spavaldo Cholo (John Leguizamo), l’indecifrabile Slack (Asia Argento).

Ma, inventando una fantasmagoria che è l’esatto contrario di un Luna Park, in cui i fuochi artificiali diventano l’ultima spiaggia per rallentare gli zombi e la tecnologia non serve più a sentirsi superiori, Romero contrappone due personaggi che potrebbero anche rimanere nella storia. Da una parte il miliardario che dall’ultimo piano del grattacielo più alto crede di avere il controllo ed è invece un presuntuoso imbecille: lo interpreta Dennis Hopper con un’ironia che la dice lunga sul suo ruolo di ultimo ribelle di Hollywood. Dall’altra Big Daddy, lo zombi di colore che acquista consapevolezza e comincia a ragionare trasformandosi in un leader: lo interpreta Eugene Clark con una serie di ammiccamenti che ce lo rendono indimenticabile. Big Daddy, secondo Romero, è Zapata. Il miliardario, secondo noi, potrebbe essere Donald Trump o Bill Gates. Ma potrebbe essere anche George W. Bush. Ecco perché Romero non è mai stato inserito in una lista di invitati della Casa Bianca.

LA TERRA DEI MORTI VIVENTI (Land of the Zombies) di George A. Romero. Con Simon Baker, John Leguizamo, Asia Argento, Dennis Hopper. USA 2005; Horror; Colore