La sedia della felicità

Potremmo saperlo direttamente da lui: «È forse il film più comico che ho fatto. Negli altri c’era anche la tristezza oltre che l’ironia. Per una volta nella vita ho desiderato fare un film che mi piacesse anche da spettatore. Avevo voglia di un film che mi divertisse. D’altra parte, in tutto il mio cinema non ho mai rinunciato all’ironia, non riesco a immaginare una cosa solo seria».
Ma, una volta preso atto delle sue parole in larga misura condivisibili, non si può fare a meno di concentrarci su quel «non riesco a immaginare una cosa solo seria» e di applicarlo anche a «La sedia della felicità». Che è un film garbato, scorrevole, in buona parte surreale e paradossale, nel cui giudizio non può non pesare la recente scomparsa dell’autore che ci rende improvvisamente più disposti a non far pesare i difetti, ma che indubbiamente non è soltanto una commedia sgangherata e un po’ folle perché affonda le proprie radici nel momento di crisi che stiamo attraversando.
Che cos’è, infatti, la caccia al tesoro nascosto in una delle otto sedie vendute all’asta a seguito di un pignoramento, se non l’ultima spiaggia per almeno due personaggi, l’estetista Bruna e il tatuatore Dino, che non sanno come fare a sbarcare il lunario e che hanno proprio bisogno di una fortuna piovuta dal cielo? Certo, dovranno vincere la concorrenza di padre Weiner, un sacerdote più interessato alle proprie tasche che alla cura delle anime. E naturalmente dovranno darsi molto da fare per individuare i diversi proprietari delle sedie, vendute separatamente.
Chissà che il lieto fine sia l’ultimo messaggio di speranza da un autore più incline alle riflessioni malinconiche che ai sorrisi rassicuranti. Ad ogni buon conto, «La sedia della felicità» diverte per una serie di bizzarre trovate surreali che indubbiamente rivelano in Mazzacurati, per una volta, un’indole più burlesca che meditativa. Il che lo porta, nel corso del racconto, a inventarsi percorsi improbabili giustificati unicamente dalla volontà di trascendere il reale che incombe, e soprattutto a orchestrare un finale in montagna che è di gran lunga l’anello più debole della catena, quasi a voler ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che non è la commedia spensierata il suo campo d’azione più congeniale. Ma la villa di Venezia abitata dai cinghiali, l’incontro con una medium in grado di vedere dove si trovano le sedie, la partita di ping pong tra due fratelli gemelli (Antonio Albanese), l’episodio del ristorante cinese e l’asta televisiva nella quale si vendono i quadri di un pittore naif uno dei quali rappresenta una sedia, sono piccoli tasselli indicatori di un talento popolare i cui punti fermi restano tali ma non escludono comunque la possibilità di rinnovarsi.