LA PELLE CHE ABITO

DI FRANCESCO MININNI

Pedro Almodovar ha una singolare capacità: molti dei propri difetti riesce spesso a trasformarli in virtù. Il che vuol dire che, talvolta, i difetti della persona possono diventare virtù cinematografiche. E’ il caso della passione: per il cinema, per il melodramma, per i suoi personaggi, per la messa in scena, per suoni e colori, per la passione stessa. Ciò lo porta sovente ad andare sopra le righe, a esagerare, a ignorare i mezzitoni, a rompere gli argini. Ma, contemporaneamente, lo qualifica, permette di riconoscere il suo stile, dà un’impronta inconfondibile al suo cinema. Il problema si pone nel caso de «La pelle che abito», una sorta di riflessione sulla crudeltà, sulla vendetta, sulla violenza, sugli scambi di ruolo che portano a una confusione d’identità, sull’impossibilità di smettere di essere se stessi anche in presenza di situazioni limite e soprattutto sulla difficoltà di trovar pace in un mondo molto cinico e troppo malato. In tutto questo, visivamente sontuoso, capace di trarre ispirazione sia da maestri come Hitchcock e Franju, sia da basse forze come l’horror sanguinario e i wrestler messicani El Santo e Blue Demon, sia ovviamente da se stesso e dalle proprie ossessioni, la grande assente è proprio la passione. «La pelle che abito» è un film gelido nel quale l’autore sembra osservare la storia dal di fuori senza entrarvi se non occasionalmente. Se questo sia un bene o un male, è l’oggetto del contendere.

Robert Ledgard, chirurgo estetico di fama, è solo. La moglie Gal è deceduta in un incidente automobilistico da cui è uscita praticamente carbonizzata. La figlia Norma si è suicidata lanciandosi nel vuoto dalla finestra di un ospedale. Di tutto questo, in realtà, è proprio Robert, egoista e narcisista, ad essere il primo responsabile. Ma lui, che continua a sperimentare una pelle sintetica più pratica e resistente di quella umana, ha colto l’occasione della violenza subita dalla figlia per vendicarsi del colpevole marginale sottoponendolo a una serie di esperimenti dal risultato sorprendente.

Si parla di horror, ma in realtà tale componente è minoritaria nel film. Certo, gli esperimenti di Ledgard non possono non evocare quelli del professor Frankenstein, così come certe esplosioni di grand guignol accostano il film a tante basse forze della macelleria internazionale. In realtà, però, a guidare le danze è sempre il melodramma, che a quanto pare è il genere preferito di Almodovar e che, se non altro, lo porta a un finale secco e ansiogeno che da solo potrebbe valere tutto il film. Ne «La pelle che abito», però, il problema è proprio un freddo citazionismo che alla fine non appartiene all’autore se separato dalla passione. Il film sembrerebbe più un ragionamento a freddo sulle tematiche affrontate, quando un ragionamento a freddo è la cosa più lontana dallo stile di Almodovar. Si può pertanto apprezzare la ripresa personalizzata del tema della ricostruzione della persona amata senza dimenticare né l’inarrivabile precedente de «La donna che visse due volte» di Hitchcock né, più recentemente, la stessa tematica affrontata proprio da Almodovar ne «Gli abbracci spezzati».

Si possono ammirare scorci di cinema magistrale (il rapporto tra Légard e i monitor, ovvero tra un creatore e l’immagine della sua creatura) associati a cadute vertiginose nel gusto, nel ritmo e nelle fonti di ispirazione. Non si può, insomma, fare a meno di riconoscere Almodovar in alcune sue ricorrenti ossessioni e nella mancanza di altre. Con Antonio Banderas che, tornato alle origini dopo ventuno anni di Hollywood, si ritrova imprevedibilmente cattivo, spietato e incapace di sentimenti sani. Tutto affascinante, insinuante, cripticamente geometrico e decisamente fuori del normale: ma chissà se gli affezionati dell’autore trarranno dal film lo stesso piacere suscitato dagli eccessi passati.LA PELLE CHE ABITO (La piel que abito)

di Pedro Almodovar. Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet. SPAGNA 2011; Drammatico; Colore