«LA PASSIONE DI CRISTO»

di Francesco MininniMel Gibson ha voluto raccontare La passione di Cristo. Non «Il Vangelo secondo…» o la vita di Gesù o altro che comprendesse tutta l’esperienza terrena del Cristo: soltanto la passione, dal Getsemani (ovvero dalle nove di sera) alla morte (ovvero alle quindici del giorno dopo), con un’appendice indispensabile rappresentata dalla resurrezione. Qualcuno lo ha definito trasgressivo, qualcun altro compiaciuto, qualcuno ancora più interessato alla violenza del racconto che alla sua sostanza ultima. Nessuno ha detto, però, la prima verità: che cioè Mel Gibson ha voluto rappresentare con i propri mezzi espressivi (di un certo peso, visti L’uomo senza volto e Braveheart) quello che ancora non era stato rappresentato, ovvero la sofferenza fisica di Gesù Cristo dall’orto degli olivi alla croce.

Eppure nei Vangeli c’è tutto: percosse, sputi, frustate, mani e piedi inchiodati, la lancia nel costato, quindi la progressiva distruzione del tempio (ovvero del corpo) che in tre giorni sarebbe stato riedificato. Nessuna trasgressione: semplicemente la verità più dura, più scomoda, più disturbante del figlio di Dio trattato come l’ultimo dei malfattori e inchiodato in cima al Calvario a testimonianza di tutto. D’amore, d’altruismo, di sacrificio estremo, di coraggio, di accettazione, di speranza, di salvezza da una parte. Di tentazione non respinta, di fallibilità del potere umano, di debolezza, di vigliaccheria, di presunzione estrema dall’altra.

Vorremmo cercare di chiarire, a noi prima che ai nostri lettori, quale sia stato il percorso di Mel Gibson nell’affrontare un’impresa tanto rischiosa. Nessun intento direttamente teologico, che d’altronde non si può ascrivere ad alcuno degli autori che in passato si erano già cimentati con l’argomento. Se c’è teologia, va ricercata pazientemente tra le righe, in qualche felicissima scelta espressiva più che in una volontà esegetica a priori. Scegliendo di rappresentare con tanta evidenza fisica la sofferenza del Cristo nelle sue ultime ore, Gibson è andato a cercare in ogni piaga e in ogni goccia di sangue versata la risposta a una domanda importante: come è possibile che un uomo abbia potuto sopportare tanto dolore senza un moto di ribellione, senza esternazioni scomposte, senza stramazzare morto prima che il tempo fosse compiuto? Se così è stato, conclude Gibson, vuol dire che quell’uomo non era soltanto un uomo. Era di più.

Per chiarire tutto questo in modo inconfutabile, l’autore ha scelto di concludere il suo film nel modo più rischioso possibile: entrando con la macchina da presa all’interno del sepolcro e (questa sì, è una novità assoluta) vivendo «in diretta» il momento della resurrezione, rappresentata correttamente con l’afflosciarsi del sudario e (scusate l’assonanza con Star Trek) la rimaterializzazione di Gesù di fianco.

Discuteremo a lungo sulle frustate, gli sputi, le percosse, i chiodi nella carne, la corona di spine, la lancia nel costato. Ma discuteremo a vuoto. Dovremmo soltanto chiederci, piuttosto, se Gibson sia riuscito a rappresentare la sofferenza fisica del Cristo con ragionevole approssimazione oppure se la realtà non sia stata ben più terribile e, quindi, non rappresentabile. Quel che è certo è che La passione di Cristo colpisce come una mazza ferrata e lo fa senza prendersi libertà rispetto ai testi evangelici, salvo l’identificazione di Maria Maddalena con il personaggio dell’adultera e un paio di diavoletti ghignanti che appartengono alla bassa forza degli effetti speciali hollywoodiani. Un’altra certezza è che, una volta visto il film e avendone ancora l’impressione viva addosso, dovremmo prendere un Vangelo (magari quello di Marco, da cui Gibson sembra aver tratto l’ispirazione maggiore) e rileggerlo per intero, in modo da rendere questa passione, così dura e coinvolgente, la giusta parte di un tutto da cui non si potrà mai prescindere.

Per completare il quadro di un film che richiederebbe uno spazio più ampio e una riflessione più meditata, è necessario evidenziare le più felici intuizioni di Mel Gibson che, anche a livello compositivo ed espressivo, rendono la sua opera superiore alla media indicando nell’autore una volontà che va ben oltre l’evidenza fisica del dolore. La Maria di Maia Morgenstern e il demonio di Rosalinda Celentano sono due personaggi ugualmente potenti e memorabili, entrambi portatori di sguardi dalla straordinaria espressività e quindi capaci di trasmettere forti sensazioni che ciascuno, secondo la propria sensibilità, dovrà poi interiorizzare. La scelta di far parlare i romani in latino e gli ebrei in aramaico crea una tale atmosfera di suggestione (che in realtà è verità) da far sembrare quasi superflua e invadente la presenza dei sottotitoli. Il gioco di sguardi tra Gesù e Maria, tra Maria e il demonio, tra il demonio e la macchina da presa sono indice di piena padronanza del mezzo espressivo che rende molto più agevole la comprensione del racconto. E infine la scena più suggestiva e più bella: nell’attimo stesso della morte, una ripresa a picco dall’alto che si materializza in una goccia d’acqua che cade al suolo annunciando la tempesta. E’ il pianto del Padre per la morte del Figlio. Ma è anche acqua che, bagnando la terra, la vivifica rendendola più fertile. È il dolore che si fa misericordia.

LA PASSIONE DI CRISTO (The Passion of the Christ) di Mel Gibson. Con Jim Caviezel, Maia Morgenstern, Monica Bellucci, Rosalinda Celentano, Mattia Sbragia, Sergio Rubini, Hristo Jivkov. USA 2004; Drammatico; Colore

Il sito ufficiale del film

Lo speciale: «The Passion», un atto di intensa devozione