LA MASSERIA DELLE ALLODOLE
di FRANCESCO MININNI
I Taviani che ci sono più cari, quelli che parlano al nostro cuore con il piglio del cantastorie e sono capaci di trovare anche negli episodi storici più duri motivi di poesia e trasfigurazione poetica, hanno forse esaurito la loro vena con «Fiorile». Senza nulla togliere al loro senso storico, all’ansia di giustizia, alla scelta di vicende ancora in attesa di chiarificazione, bisogna prendere atto del fatto che «La masseria delle allodole», tratto dal libro dell’armena Antonia Arslan, non ha la stessa profondità, la stessa forza, lo stesso impeto delle loro opere migliori. La rievocazione del massacro del popolo armeno ad opera dei turchi nel 1915 (già raccontato da Atom Egoyan in «Ararat») ha l’aspetto e la profondità di una qualunque fiction televisiva, senza che mai emergano i dati salienti dello stile dei fratelli toscani: il rapporto immagine-suono, i bei volti popolari di attori non necessariamente famosi, la composizione di immagini dure e al tempo stesso evocative. «La masseria delle allodole» è un film composto, senza acuti, sovente melodrammatico, quasi scolastico nella rappresentazione diligente di un evento storico che avrebbe meritato ben altra cassa di risonanza.
Se da una parte si prende atto del costante impegno degli autori sul fronte della Storia, dall’altra ci si chiede dove siano finiti le loro invenzioni popolari, le loro bordate poetiche, i loro ricordi trasfigurati che si fanno realtà, il loro cinema di emozioni che non rinuncia mai alla ricerca di un perché. A ben pensarci, l’idea di stile televisivo è dovuta al fatto che «La masseria delle allodole» sembra uno di quei prodotti concepiti per il piccolo schermo e distribuiti al cinema in una versione opportunamente accorciata in attesa che quella integrale venga trasmessa a puntate in una fascia di grande ascolto. Non è un bel complimento per i registi di «La notte di San Lorenzo», «Kaos» e «Good Morning Babilonia».