La La Land
Quattordici candidature all’Oscar. Allora La La Land di Damien Chazelle dev’essere proprio un capolavoro. È evidente che il ragionamento dev’essere più complesso e non può esaurirsi in una specie di equazione fittizia. Sappiamo bene come «film da Oscar» e «capolavoro» siano raramente (molto raramente) sinonimi. Quindi è opportuno cominciare da qui: La La Land è sicuramente un film da Oscar. E ne vincerà: magari non quattordici, ma ne vincerà.
Chazelle ha le sue motivazioni per realizzare un film del genere, ma è tanto intelligente quanto astuto. Cioè, effettua anche un lavoro filologico nella ricostruzione del musical classico, ma contemporaneamente sa benissimo come arrivare agli incassi e ai premi. Insomma, La La Land può essere letto sia come un sentito omaggio a uno dei generi in assoluto più hollywoodiano del cinema, ma anche come una studiata operazione di marketing che darà i suoi frutti.
Da parte nostra, opteremmo per un’equa distribuzione del giudizio: impossibile elogiarlo a 360°, inutile e spocchioso confinarlo nei belli senz’anima. A suo favore, indubbiamente, due fattori: la precisione della ricostruzione scenografica, fotografica e coreografica che evocano di volta in volta Vincente Minnelli, Jacques Demy, George Sidney, Fred Astaire e Gene Kelly, e d’altro canto una profonda tristezza di fondo che tiene a distanza il lieto fine (confinato in un sogno) per scegliere una rilettura critica della ricerca del successo. A suo sfavore, invece, la musica di Justin Hurwitz: carina, orecchiabile, ma molto lontana da (tanto per dire) George Gershwin, Cole Porter, Jerome Kern o Richard Rodgers. Questo, in realtà, non è un handicap devastante come si potrebbe pensare, perché La La Land punta più sugli ambienti, i colori, le scenografie che non strettamente sulla musica. La musica accompagna, non comanda. E così il film può trasformarsi in revival del musical anche senza avere una musica al top.
A Los Angeles (dove altro?) si incontrano due sogni: Mia, cameriera in un bar, vorrebbe fare l’attrice e Sebastian, musicista jazz, vorrebbe aprire un proprio locale dove poter suonare la propria musica. Si amano, combattono, non mollano mai danzando tra le stelle. Ma quando il successo arriva, li divide. Sebastian accetta di suonare musica che non ama in cambio di una paga sicura, lunghe tournée e una certa visibilità nazionale. Mia, dopo l’ennesimo provino, è scelta per un film importante da girare a Parigi. Si ritroveranno qualche tempo dopo, lei con un marito, una figlia e tanto successo, lui con il suo locale («Seb’s», con una nota musicale al posto dell’apostrofo). Si sorrideranno e poi ognuno per la sua strada.
La malinconia finale è l’unica nota che tiene La La Land attaccato alla realtà, in un certo senso a un’attualità che tutto il resto esclude. Si comincia su una highway dove tutti scendono dalle macchine in coda e cominciano a ballare e a cantare. Poi, quando Sebastian e Mia si incontrano è il momento dei duetti. Li vediamo ballare tra le stelle sulla collina del Planetario o tra le panchine di un giardino pubblico. È un mondo simile al nostro, ma nel quale tutti cantano e ballano. Come ai tempi d’oro del musical, ci si mette a cantare interrompendo un discorso o a ballare dovunque fuorché su un palcoscenico. Perché, è evidente, il mondo è un palcoscenico e i protagonisti ne sono le star.
Non sembra neanche il caso di chiedersi quale possa essere la percentuale tra verità e finzione: l’operazione di Chazelle prevede che le due cose si fondano perfettamente di modo che l’unica verità sia la finzione. Come si dice: è Hollywood, baby. In questo contesto classico, Ryan Gosling ed Emma Stone rappresentano l’elemento perturbante: non sono star in senso assoluto e possono permettersi di gettare uno sguardo un po’ ironico e un po’ malinconico dall’epoca evocata dal film a quella attuale. Condannati al successo, devono rinunciare all’amore. Sempre nella finzione, che in questo caso diventa verità.