La grande democrazia nata dalla violenza: «GANGS OF NEW YORK»

DI FRANCESCO MININNIChissà che Martin Scorsese sia l’unico regista americano capace di raccontare la storia di un paese nato dalla violenza e poi autodichiaratosi la patria della democrazia. Di certo «Gangs of New York», prodotto dalla Miramax ma non omologato con i film targati Weinstein, è un’opera possente, violenta, morale, storicamente dettagliata, minuziosa nel quadro generale come nei più piccoli dettagli. Un film studiato e sognato per trent’anni che, come e più di «C’era una volta in America» di Sergio Leone, racconta la genesi di un sogno con i contorni dell’incubo. Un luogo dove si prega, si va in Chiesa, si fa la comunione prima di uccidere, si invoca Dio perché possa guidare la mano contro il nemico, si legge una Bibbia che si ferma sempre all’Antico Testamento, si vive per la vendetta, si muore per niente: Scorsese racconta in «Gangs of New York» l’altra faccia de «L’età dell’innocenza», dove la violenza delle rigide regole sociali lascia il posto a quella brutale dei bassifondi e delle strade fangose. Così il suo film diventa un ideale prolungamento della vecchia frontiera del Far West: non quello romantico di «Sfida infernale», ma quello sporco e fuori del mito de «Gli spietati».

La New York del 1844 è un luogo di anarchia, senza legge che non sia quella della sopravvivenza, senza sentimenti che non siano odio e rancore, senza tutori dell’ordine, senza governanti. Eppure ci sono i poliziotti, gli uomini politici, gli sceriffi. Ma la legge sono le gang a farla: da una parte i «nativi» guidati da Bill Cutting detto il macellaio, dall’altra una congerie di immigrati, in prevalenza irlandesi, che reclamano il loro diritto a vivere in terra straniera. Ucciso il «prete» Vallon durante uno scontro di strada, Bill diventa il capo assoluto. Almeno finché, sedici anni dopo, il figlio di Vallon, Amsterdam, torna a farsi vivo per vendicare la morte del padre. E intanto New York è in tumulto: la vicenda si concluderà durante la più cruenta sommossa urbana della storia americana. Che, chissà perché, i libri di storia ignorano sistematicamente.

A dire il vero, il bello di «Gangs of New York» è che la vicenda non si conclude. Sullo sfondo delle macerie, con una bellissima serie di effetti successivi, Scorsese ci mostra il nascere e l’espandersi dell’odierna Big Apple. Con sullo sfondo quelle torri gemelle a ricordarci che chi semina vento raccoglie tempesta e che la violenza è sempre e comunque insensata e inutile.

Bello, compatto, emozionante e soprattutto sensato, «Gangs of New York» è la conferma di un talento a 360°, capace di usare la violenza (e, credeteci, ce n’è nel film) per raccontarci quanto sia brutto costruire una nazione sull’odio e sulla morte. Con collaboratori tecnici straordinari (uno per tutti: il direttore della fotografia Michael Ballhaus), attori in stato di grazia (su tutti Daniel Day-Lewis, indimenticabile Bill il macellaio) e la voglia di fare un kolossal che, andando oltre lo spettacolo, diventa una lezione di storia.

GANGS OF NEW YORK (Id.) di Martin Scorsese. Con Leonardo Di Caprio, Daniel Day-Lewis, Cameron Diaz. USA 2002; Drammatico; Colore