LA GIUSTA DISTANZA
DI FRANCESCO MININNI
Qualcuno, trovando più analogie e somiglianze di quante in realtà non ve ne siano, potrebbe pensare di ribattezzare «La giusta distanza» di Carlo Mazzacurati «La ragazza del fiume». Sbaglierebbe, facendo un torto sia a Mazzacurati che a Molaioli. «La ragazza del lago» nasce da un romanzo norvegese, «La giusta distanza» è un soggetto originale. Il film di Molaioli parla del peso del passato sul presente, «La giusta distanza» della difficoltà di avere una vita propria senza che il resto del mondo (grande o piccolo che sia) prima o poi vi irrompa distruggendo vite materiali e morali senza il minimo cenno di esitazione. Il valore aggiunto che fa de «La giusta distanza» un’opera di livello superiore è in un certo senso ambientale. Mazzacurati, che dal rapporto con la propria terra ha saputo trarre il meglio della propria ispirazione («Notte italiana», «Il toro», «La lingua del santo»), è infatti bravissimo a muoversi sulle rive del Po e a trasformare l’ambiente geografico in un personaggio aggiunto di importanza fondamentale. In questo caso l’importanza è antitetica alle tematiche molto tristi che la storia porta avanti: in mezzo a tanta tristezza, un po’ come in «Centochiodi», il Po rappresenta comunque un momento di serenità che va oltre la cattiveria della gente che ne calpesta le rive.
Nel paese di Concadalbero l’arrivo della nuova maestra, Mara, suscita un vespaio di sentimenti che finirà per sfociare in un evento tragico. Nasce l’amore tra Mara e il tunisino Hassan. Ma non potrà essere una storia tranquilla, perché ognuno ha da dire la sua: il tabaccaio Amos, che la corteggia da volgare arricchito; l’aspirante giornalista Giovanni, che ne spia la posta elettronica; l’autista della corriera, gentile e sorridente ma assiduo nella frequentazione. Quando, alla vigilia della partenza per il Brasile, Mara è rinvenuta morta nel Po, la cosa più naturale e rassicurante, anche sulla base di indizi apparentemente inoppugnabili, sembra scaricare la colpa su Hassan. Ma a questo punto qualcuno, forse troppo tardi, decide di vederci più chiaro.
Diciamo la verità: quando, nel quarto d’ora finale, «La giusta distanza» assume le cadenze del thriller che porterà comunque a una chiarificazione relativamente inaspettata, il lavoro di Mazzacurati rientra nella norma tornando a bussare alla porta del cinema di genere. Ma non al punto da invalidare un’opera solida e originale, raccontata con ritmi lenti che permettono di lasciare spazio a intelligenti notazioni psicologiche, a straordinarie ricerche ambientali, a interpretazioni sommesse da parte dei tre protagonisti Capovilla, Lodovini e Hafiene. E soprattutto a un intreccio di tematiche che svariano dal razziale al provincialismo, dal sentimento alla perversione, dalla pace della natura alla tempesta dei rapporti umani, passando attraverso simbologie semplici (la ricostruzione della motocicletta) e complesse (il mestiere del giornalista) che aiutano a comprendere il significato ultimo del film. Che più o meno potrebbe essere la ricerca di una terra dove l’amore tra un uomo e una donna possa maturare liberamente senza che qualcuno possa sentire il bisogno di trasformarlo in una notizia da prima pagina.