«LA FABBRICA DI CIOCCOLATO»

DI FRANCESCO MININNIL’idea che dietro una fabbrica di dolciumi famosa nel mondo possa nascondersi la solitudine di un magnate che, sballottato dalle cose della vita, non ama affatto l’umanità e si nasconde dietro lo zucchero per non affrontare il prossimo, poteva essere suscettibile di sviluppi molto interessanti. Soprattutto se al timone dell’operazione c’è Tim Burton, visionario e fantasioso ma anche pronto a improvvisi lampi di cattiveria che ne esaltano il lato oscuro rendendo quello luminoso un semplice accessorio.

Con «La fabbrica di cioccolato», tratto da un romanzo di Roald Dahl già portato sullo schermo da Mel Stuart nel 1971 («Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato», con Gene Wilder protagonista e sceneggiatura dello stesso Dahl), Burton tenta di riallinearsi all’idea originale dello scrittore, molto più cupa e inquietante di quella che nelle mani di Stuart si diresse invece verso un inutile buonismo. Ma a quanto pare l’operazione non è risultata particolarmente facile.

Chiuso da anni nella sua fabbrica di dolciumi e lontano da ogni contatto col mondo, Willy Wonka decide di permettere a cinque bambini di varcare il cancello e di visitare gli impianti. Quattro sono bambini viziati e golosi che sono fermamente convinti che tutto sia loro dovuto. Uno, Charlie, è figlio di povera gente, conosce il valore del sacrificio e si accontenta di realizzare un sogno. Uno dei cinque vincerà il grande premio predisposto da Wonka…

L’intenzione di Tim Burton era certamente quella di trasformare lo zucchero dei dolciumi nel lato oscuro di una desolante solitudine. Ma talvolta lo zucchero è contagioso e «La fabbrica di cioccolato» finisce per essere un raccontino molto inferiore alle premesse nel quale si capisce soltanto che le coloratissime scenografie della fabbrica sono finte e fumettistiche perché devono esserlo, che Johnny Depp è imprigionato in un trucco quasi cereo che dovrebbe renderlo inquietante e che i bambini che progressivamente spariscono rappresentano la vendetta di Wonka contro il mondo che lo ha trasformato in quel che è.

Nella sostanza, niente di diverso dal vecchio «Willy Wonka», salvo la superiorità dei mezzi a disposizione e il look del protagonista. Da tutto questo emerge un dato significativo: le intenzioni di Burton non sono arrivate a compimento perché il regista, come spesso gli succede, si è lasciato stregare dalle possibilità visionarie della storia ed ha dimenticato di chiarire i concetti. «La fabbrica di cioccolato» potrebbe essere ricordato più per il fatto che i centosessantacinque Umpa Lumpa sono in realtà uno solo (Deep Roy) moltiplicato con la computer grafica e protagonista di numeri musicali alla Busby Berkeley che, venendo da Danny Elfman, potevano anche essere più complessi e articolati. E così Tim Burton continua a dividere i pareri: c’è chi lo considera un genio assoluto e chi invece è convinto che qualche forza misteriosa lo avvicini alla dimensione d’autore per ricacciarlo puntualmente in quella di imbonitore da circo.

LA FABBRICA DI CIOCCOLATO (Charlie and the Chocolate Factory) di Tim Burton. Con Johnny Depp, Freddy Highmore, Helena Bonham Carter. USA 2005; Commedia; Colore

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