La donna dello scrittore
Christian Petzold è un autore tedesco da non sottovalutare. Fine psicologo, amante del melodramma, studioso delle possibilità trasfiguratrici del cinema, molto attento alle strade della letteratura e a come trasformarle in immagini senza mai perdere la matrice letteraria, diffidente nei confronti dei percorsi già scritti o troppo semplici, ma anche refrattario all’ermetismo senza uscita, ad ogni nuovo film scrive una pagina nuova. Come quando, ne La scelta di Barbara, parlava di scelte politiche e morali nella Germania dell’Est. O quando, ne Il segreto del suo volto, proponeva una doppia identità femminile per mettere a nudo ipocrisie e menzogne. Niente di questo, però, avrebbe potuto prepararci a La donna dello scrittore, tratto dal romanzo di Anna Seghers e fortemente voluto da Harun Farocki, sceneggiatore di quattro film precedenti e deceduto nel 2014. Il film gli è dedicato, ma non ha potuto beneficiare della sua collaborazione alla stesura definitiva della sceneggiatura. Sicuramente, però, le sue idee e la sua visione dell’esistenza, non molto dissimili da quelle di Petzold, aleggiano.
Quando i nazisti occupano la Francia Georg, un tedesco in fuga, assume l’identità di Weidel, uno scrittore morto suicida per sfuggire all’arresto. Giunto a Marsiglia e in attesa della nave che lo porterà in Messico, Georg deve affrontare diverse situazioni. Una magrebina e suo figlio, in procinto di scappare sui monti, entrano nella sua vita con forza. Soprattutto il ragazzo, che finisce per scorgere in lui un sostituto della figura paterna. Un’ebrea in fuga, che lo incrocia più volte occasionalmente. Un pediatra, anch’egli in procinto di partire per il Sudamerica. Ma soprattutto la moglie di Weidel che, non sapendo della morte del marito, continua a cercarlo sulla base delle tracce che Georg lascia nei consolati o altrove («Mi hanno detto che era qui poco fa. Arrivo sempre un attimo dopo»). La questione complessa è che la donna l’ha lasciato ma, pur frequentando altri uomini (il pediatra, Georg stesso in pieno transfert), continua a cercarlo per spiegare le sue ragioni. E la storia, anzi le tante storie, si avviano inevitabilmente a una conclusione drammatica.
Il dato qualificante de La donna dello scrittore (in originale, molto più significativo, Transit a significare un passaggio continuo: da un paese all’altro, da un’identità all’altra, dalla pagina al film) riguarda l’ambientazione. Petzold parla di occupazione, rastrellamenti, del Velodrome, di resistenza ma ci si rende conto fin da subito che la Marsiglia del film è quella contemporanea. Molte sirene, richieste di documenti, racconti di azioni belliche, ma neanche un nazista. Le auto sono quelle di oggi, le strade e le architetture non evocano gli anni Quaranta. Siamo ai giorni nostri e Petzold fa il possibile per far capire che il regime adombrato dal racconto non è quello passato, ma uno nuovo che potrebbe arrivare o che c’è già ma di cui non ci rendiamo conto.
E anche così, La donna dello scrittore non è soltanto un film che analizza il contemporaneo in chiave strettamente politica. È molto di più. Per quanto costantemente accompagnato dalla voce narrante di un barista cui la storia viene raccontata da Georg e che diventa poi depositario dell’ultimo manoscritto di Weidel e per quanto le sue parole ribadiscano stati d’animo e reazioni che gli attori (bravissimi i due protagonisti Franz Rogowski e Paula Beer) sono perfettamente in grado di esprimere da soli, il film non si adagia su una letterarietà anticinematografica. Svaria da una sensazione all’altra, da un’identità all’altra, da un personaggio all’altro componendo un quadro che fuori dei limiti temporali restituisce perfettamente un male di vivere, una lotta tra scelte morali e di comodo, tra verità e menzogne che sono proprie dell’uomo da sempre. E Christian Petzold si conferma analista di spessore e regista impeccabile.
LA DONNA DELLO SCRITTORE (Transit) di Christian Petzold. Con Franz Rogowski, Paula Beer, Godehard Giese, Lilien Batman, Maryam Zaree. GERMANIA/FRANCIA 2018; Drammatico; Colore.