La città ideale
Ha un bel dire Luigi Lo Cascio che la sua carriera di attore è cominciata con il cabaret. Da quando ha esordito nel cinema (nel 2000, con «I cento passi» di Marco Tullio Giordana) lo associamo invariabilmente a personaggi tormentati, sofferenti e votati a un destino infelice, con l’esclusione del Manuelo de «Gli amici del Bar Margherita», nel quale Pupi Avati lo fece ridere ininterrottamente. Non ci stupisce, pertanto, che per il suo esordio nella regia Lo Cascio abbia scelto una storia drammatica e grottesca, «La città ideale», che evoca in parti uguali Kafka e Pirandello e che rappresenta un vero e proprio omaggio al talento di un autore italiano troppo presto dimenticato, Elio Petri.
Il fatto che Lo Cascio abbia optato per una narrazione progressivamente indirizzata verso toni surreali che non escludono la possibilità di una forma estrema di umorismo nerissimo, non toglie comunque al film la sua vena drammatica e angosciante. Come se, narrando con toni tutt’altro che realistici, l’autore volesse rendere con precisione l’idea di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi e che nello stesso momento ci sfugge sempre più di mano trasformandosi in un altrove nel quale siamo sempre presenti senza avere più voce in capitolo.E pensare che, come in certi drammi di Pirandello, tutto nasce dal tentativo di afferrare un semplice dettaglio: la verità.
A Siena, Michele Grassadonia conduce un’esistenza che sarebbe eccessivo definire tranquilla. Scrupoloso sul lavoro, scrupoloso nel suo utopistico ambientalismo, scrupoloso nei rapporti con gli altri, scrupoloso in tutto, Grassadonia è evidentemente destinato a incontrare ostacoli che si riveleranno insormontabili. Una notte di pioggia, mentre si sta recando in macchina (un’auto elettrica, naturalmente) a prendere una collega per portarla a una festa, urta un corpo in movimento del quale non trova alcuna traccia, sbatte contro un’auto in sosta e infine, notato un ingombro lungo la strada, torna indietro per rimuoverlo e si accorge che si tratta di un uomo. Convincere di tutto questo le autorità non sarà affatto facile: Grassadonia finirà indagato per omicidio colposo.
Potremmo dire che quanto sopra esposto è appena l’inizio. Si aggiungono poi la ricerca di un avvocato disposto a credergli, le preoccupazioni della madre venuta da Palermo («Che vergogna!»), lo strano rapporto con una ragazza di buona famiglia cui ha affittato l’appartamento e, in ultimo, la decisione di ricorrere a un avvocato palermitano che ha frequenti rapporti con la mafia.
Tutto questo Lo Cascio lo racconta con uno stile antirealistico, come se in un certo senso non stesse accadendo realmente ma prendesse vita via via che trova posto nella mente del protagonista. Ciò non crea un effetto straniante, perché è evidente che l’intenzione dell’autore è quella di raccontare una storia di oggi intingendo il pennello nella tavolozza surreale. Ed è qui che il riferimento a Elio Petri diventa importante. Soprattutto nella parte conclusiva della sua carriera, Petri prese a raccontare la realtà mascherandola di grottesco, allucinato e stravolto, con opere come «La proprietà non è più un furto», «Todo modo» e «Buone notizie», nelle quali personaggi malati popolavano un mondo bruttissimo.
Lo Cascio non arriva a tanto, ma sposa in tutto l’idea della lente deformante che non fa mai dimenticare che potremmo essere di fronte a una storia vera. «La città ideale», che ha il vantaggio di non essere troppo pretenzioso e di non dare per scontato che il pubblico comunque capisca alla prima, riesce a tenerci sulla corda, a coinvolgerci e, nell’angoscia, a trasmettere una certa sensazione di divertimento intellettuale. Ma soprattutto riesce a non cedere alla tentazione delle spiegazioni e a imbastire un finale che a tutti gli effetti non è la conclusione di niente: il processo di K. continua e chi è entrato nel castello è ben lontano dall’aver trovato l’uscita.