La casa di Jack
Credeteci: ogni nuovo film di Lars von Trier ci preoccupa a prescindere. E non perché una consistente parte della critica mostri di gradirlo esaltandone qualità che talvolta ci sfuggono, ma semplicemente perché sappiamo prima di vederlo che non sapremo come prenderlo. Prevarrà in lui l’irresistibile volontà di trasgressione? Ci sarà più spazio per l’ironia? Dovremo attenderci qualche astrazione filosofica che non sarà comunque infondata? Riusciremo finalmente a capire se c’è o ci fa?
In fondo, non sono quesiti oziosi a proposito di un regista cacciato da Cannes per apologia del nazismo e che il giorno dopo ha dichiarato di aver voluto fare uno scherzo alla stampa. La casa di Jack, nel caso specifico, sembra fatto apposta per moltiplicare i dubbi (che naturalmente non ci faranno perdere il sonno) e perpetuare questa sorta di guerra in trincea che, ormai ne siamo certi, andrà avanti all’infinito salvo dissolversi per esaurimento.
Jack è un serial killer particolarmente efferato che, a quanto pare nell’aldilà, racconta per sommi capi la propria storia a Virgilio che lo sta accompagnando all’inferno. A quanto pare, stando ai cinque episodi da lui narrati e denominati incidenti, la sua missione di assassino può essere equiparata alle sue velleità di architetto (anche se in realtà è un ingegnere) che vorrebbe costruirsi una casa ma la demolisce continuamente perché i materiali usati di volta in volta non si comportano secondo i suoi desideri. Fatalmente, l’unica casa che riuscirà a completare sarà quella fatta con i corpi congelati delle proprie vittime all’interno della quale si spalancherà una botola che porta direttamente all’inferno.
Esposto l’argomento del film con il massimo della sintesi e il minimo dei particolari, cominciano i dubbi. Pare evidente che von Trier non vada a casaccio, che sia animato da un fiero pessimismo, che non riservi un trattamento particolarmente benevolo ai personaggi femminili, che conosca molto bene letteratura, pittura, musica e filosofia e che desideri sopra ogni altra cosa continuare ad essere un personaggio scorbutico e urticante. L’argomento stesso del film induce a far pendere l’ago della bilancia dalla parte della provocazione, a un livello tale da suscitare ripulsa, rabbia e disgusto.
Di conseguenza le appendici filosofiche, artistiche e letterarie diventerebbero un alibi: il pubblico dovrebbe cioè chiedersi se sia mai possibile che un artista possa lavorare soltanto sull’eccesso o se piuttosto tutti quei riferimenti colti non nascondano una finalità più alta che non tutti riusciranno a cogliere. Certo, il dubbio resta. Ma ci riesce molto difficile trovare un filo conduttore che non sia un fatalismo esistenziale privo di qualunque ipotesi di ravvedimento o redenzione. Il che giocherebbe a favore dell’immagine di von Trier come provocatore a 360°, che in un certo senso finirebbe per nutrirsi delle critiche, degli attacchi, dei rifiuti cui va soggetta la sua opera molto più delle lodi, delle esegesi appassionate e del rispetto. Detto questo, è innegabile che l’autore danese sia capace di girare al meglio un film difficile e rischioso come questo, trovando in Matt Dillon un protagonista abbastanza inaspettato e in Bruno Ganz (Virgilio) una figura di straordinaria dignità e spessore.
Ma, a costo di ripeterci, ci tocca ribadire come secondo noi Virgilio (e Dante, perché Jack scende all’inferno con un accappatoio rosso), Glenn Gould, Gauguin, Albert Speer, il tableau vivant ispirato a Delacroix e a monte a Géricault siano riferimenti colti e di alto spessore, ma abbiano più la funzione di depistare che di far accedere a più alti significati. In un certo senso von Trier imita se stesso e costruisce quella che potrebbe molto rapidamente diventare una maniera che nasce e muore in se stessa.
LA CASA DI JACK (The House That Jack Built) di Lars von Trier. Con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Riley Keough. DH/F/D/S 2018; Drammatico; Colore.