Killer Joe

Per alcuni William Friedkin è il regista di alcuni blockbuster come «Il braccio violento della legge» e «L’esorcista», poi rientrato nei ranghi di produzioni quasi indipendenti dalla distribuzione limitata. Per altri è un maestro assoluto il cui capolavoro sarebbe «Il salario della paura», remake di «Vite vendute». Per noi è un autore di non facilissima leggibilità, spesso frenato dalle leggi del mercato, che ha comunque cercato di rivisitare alcuni generi con prevalenza dell’horror e del noir mantenendo elementi stilistici molto personali quasi sempre legati a una scrittura sopra le righe e soprattutto disturbante. «Killer Joe» lo rappresenta molto bene. È eccessivo, è disturbante, ha un significato che va oltre la semplice storia raccontata e deve fare i conti con tutti i rischi impliciti nello stile adottato.
In una località (come si suol dire) dimenticata da Dio nel Texas meridionale, la famiglia Smith (cioè a dire chiunque) deve affrontare problemi di ordinaria follia dovuti a debiti, deviazioni mentali e grane interne. L’idea di Chris, il primogenito, sembra mettere d’accordo tutti: uccidere la madre, che vive con un altro uomo, e incassare il premio dell’assicurazione sulla vita di cui sarebbe beneficiaria la figlia Dottie. A compiere l’operazione dovrebbe essere Joe Cooper, un poliziotto locale che arrotonda facendo il killer. Convinto il padre Ansel, Chris contatta Joe per prendere accordi. Siccome la famiglia Smith non dispone di contanti per l’anticipo, Joe chiede Dottie come caparra. Il meccanismo, una volta avviato, è difficilissimo non solo da fermare, ma anche semplicemente da controllare. Le brutte sorprese sono dietro l’angolo.
Il genere, teoricamente il noir, in realtà è quasi violentato da Friedkin, sulla base di un testo teatrale di Tracy Letts che lo ha anche sceneggiato, fino a incanalarlo verso il grottesco più sfrenato. Il che non deve mai far pensare che l’autore stia raccontando una storia di finzione: «Killer Joe» è a tutti gli effetti una devastante rappresentazione di una società non solo marcia e degradata, ma addirittura in via di decomposizione. E niente vieta di pensare che il Texas possa essere un microcosmo utilizzato per raccontarne uno più vasto. I dati letterali che non hanno bisogno di spiegazioni sono un poliziotto che rappresenta l’esatto contrario di legge e ordine, una famiglia che vive a compartimenti stagni e si ritrova riunita solo a un passo dalla distruzione, un’atmosfera malata che rende il tutto ineluttabile e terribilmente normale. Ma a Friedkin sembrano interessare di più alcuni segnali collaterali: il crocifisso che campeggia su una parete di casa Smith, l’idea di discesa all’inferno di un’ordinaria famiglia country, l’assenza di istituzioni che possano prevenire o salvaguardare. In sostanza, il progressivo allontanamento del concetto di Dio, patria e famiglia che da sempre è alla base della società americana.
Naturalmente la scelta di uno stile violento, iperrealista e caratterizzato da ogni eccesso possibile comporta qualche rischio cui Friedkin non si sottrae, ma che neppure riesce a controllare con fermezza e rigore. Se la resa dei conti finale, con la parziale sorpresa di un piccolo e apparentemente innocente cane di paglia che improvvisamente prende fuoco, sigilla con stile coerente una storia di estremismi grotteschi e dolorosi, bisognerebbe che qualcuno ci spiegasse la necessità di un ulteriore «oltre» rappresentato da una fellatio simulata con una coscia di pollo fritta. Secondo noi si tratta di un episodio gratuito che conferma quanto sia difficile trovare il pedale del freno quando si è freneticamente lanciati sull’acceleratore. Se poi c’è una simbologia ardita, ammettiamo di non averla colta. Il resto è classe: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church e Gina Gershon disegnano personaggi che davvero non vorremmo incontrare. E Juno Temple, apparentemente l’agnello sacrificale, attende il suo momento di gloria, a conferma che, con modalità via via più perverse, gli Stati Uniti sono ancora una società matriarcale.