Jurassic world
Nel 1993, con «Jurassic Park» ispirato al romanzo di Michael Crichton, Steven Spielberg scrisse una nuova pagina dell’immaginario contemporaneo mescolando abilmente horror, avventura esotica, stupore infantile, scienza e metascienza con l’intento principale di accompagnare il pubblico in un’attrazione del Luna Park senza però dimenticare accenni ai limiti della scienza e della presunzione umana.
Quattro anni dopo «Il mondo perduto» dello stesso Spielberg allargava l’orizzonte della saga a più interessanti riflessioni sul contemporaneo con addirittura espliciti riferimenti alla guerra del Vietnam e, alla base, sempre la contrapposizione tra uomo e natura. La serie avrebbe potuto finire qui. Già «Jurassic Park III» di Joe Johnston, del 2001, riduceva riflessioni e simboli a semplici appendici di un giocattolo. Ora «Jurassic World», per quanto siano passati quattordici anni dall’ultima visita alle attrazioni, conferma in pieno la nuova destinazione dei dinosauri da raffigurazione di paure ancestrali a semplici bersagli di un tirassegno da Luna Park (alternativamente con gli esseri umani) e ripetizione di ragionamenti che già conosciamo e che non necessitano di essere riproposti senza aggiornamenti. Steven Spielberg si accontenta di questo e rimane in cabina di produzione, consapevole che quanto c’era di interessante da dire l’ha già detto lui e ben lieto di lasciare ad altri il ruolo di ripetitori.
Non contenti di tutte le specie che già popolano il Jurassic World su Isla Nublar, i responsabili della società InGen hanno pensato di accrescere brividi e di conseguenza partecipazione creando un dinosauro geneticamente modificato ottenuto dal mix dei DNA di specie diverse. Così è nato l’Indominus Rex, che naturalmente racchiude in sé il meglio (o il peggio, a seconda dei punti di vista) delle specie utilizzate e che, sfuggito al controllo e libero di muoversi a proprio piacimento, sparge il terrore tra i turisti e sfugge regolarmente a qualunque tipo di trappola. Owen Grady, istruttore dei velociraptor, si rende conto del pericolo e si attiva per fermare il mostro. Cosa che naturalmente non gli sarebbe possibile senza l’intervento di altre creature. E la storia continua.
La prima cosa che salta agli occhi è che, al di là della tecnologia avanzata e della buona riuscita di alcune scene d’azione, «Jurassic World» è costruito con variazioni minime sulla medesima ossatura di «Jurassic Park», di cui segue fedelmente la sceneggiatura riproponendo analoghi snodi narrativi e persino presunte sorprese. Il problema è proprio questo: che, se «Jurassic Park» viveva della forza devastante dell’effetto sorpresa e dello stupore del pubblico di fronte a una specie di anomalo viaggio nel tempo, «Jurassic World» su questo non può più contare. Lo stupore si è fermato ventidue anni fa al primo apparire dei bestioni antidiluviani. Oggi non si può che ripetere aumentando la pericolosità del soggetto, che però non basta a giustificare un intero film. L’altro problema è che, a differenza di «Jurassic Park», il nuovo capitolo non può contare su personaggi ben costruiti e su attori di classe.
Chris Pratt («Guardiani della galassia») è un soggetto gradito al pubblico femminile ma non in grado di incidere su un personaggio scontato. Bryce Dallas Howard («The Village», «Lady in the Water», «Hereafter») sarebbe più brava del collega, ma occorrerebbe un personaggio più sfumato. Vincent D’Onofrio («Full Metal Jacket», «Strange Days») ha capacità, ma deve combattere con lo stereotipo del cattivone che intende utilizzare i dinosauri in campo militare. D’altronde, «Jurassic World» non vive di personaggi, ma di attrazioni preistoriche: non gli si richiede il funzionamento degli attori, ma dei dinosauri. E allora scendono in campo l’Indominus Rex, i velociraptor, gli pterosauri, il T-Rex e il mosasaurus che consentono a Trevorrow di sbizzarrirsi nel citazionismo sfrenato da «Gli uccelli», «Lo squalo» e, perché no, «Il buono, il brutto, il cattivo». Gli incassi gli danno ragione.