Jackie
Non si può chiedere a Pablo Larrain di raccontare la storia con il piglio dello storico. Larrain non realizza biopic né trattati scolastici. Larrain fa cinema, il suo cinema. Provocatorio, surreale, evocativo, appassionato, graffiante, polemico: non storico nel senso accademico del termine. Così, se qualcuno dovesse chiedersi perché l’autore cileno ha scelto di raccontare Jacqueline Kennedy (ma più precisamente Jackie, come il titolo del film) e del suo progressivo riavvicinarsi alla realtà dopo un breve periodo di favola, dovrebbe anche ricordarsi che il film precedente di Larrain è stato «Neruda»: tutt’altro che una biografia, una ricostruzione sopra le righe di un genio avverso al potere.
Così anche Jackie, nel suo romantico (e disperato) tentativo di equiparare la Casa Bianca alla reggia di Camelot ristrutturandola e arredandola con il denaro pubblico, non è necessariamente Jacqueline Kennedy come la storia ce l’ha tramandata. È una donna ricca di fascino e di glamour che passa bruscamente dal ruolo di first lady a quello di una vedova allontanata dalle stanze del potere ma pur sempre conosciuta dal mondo intero. Per questo motivo la storia da lei raccontata a Theodore H.White, giornalista politico di «Life», cinque giorni dopo l’attentato di Dallas, non è la verità: è la sua storia, come lei l’ha vissuta, come la ricorda e soprattutto come la vuole ricordare.
Con l’intervista di White a fare da cornice, ci sono alcuni episodi dei due anni di permanenza alla Casa Bianca ad essere focalizzati in un montaggio incrociato complesso. Il tour della Casa Bianca registrato da CBS News con Jackie come anfitrione e cicerone. Il giorno più lungo, a Dallas, dove il problema più urgente sembra il dover ricordare il suono del primo proiettile. La conversazione/confessione con un anziano sacerdote nei viali del cimitero. Il contrasto con la famiglia Kennedy sul luogo di sepoltura di John. La ferma volontà di seguire il feretro a piedi nonostante i problemi di sicurezza e i dubbi dei responsabili. Lo stretto rapporto con Robert, che gode della sua fiducia e fa il possibile per alleggerirle il peso. E contemporaneamente la consapevolezza che tutto questo rafforzerà la sua immagine pubblica un attimo prima di uscire di scena.
Jackie, come era prevedibile, allontana ogni allusione a gossip di qualunque genere e alla vita successiva della protagonista. A Larrain interessano quell’episodio storico (l’intervista di White) e i fatti come sarebbero accaduti secondo il racconto di Jackie. Il tutto narrato con uno stile secco e privo di svolazzi in modo da rendere estremamente difficile separare la storia dalla favola. Che era sicuramente l’unico modo per ottenere un ritratto convincente di una donna molto complessa: testarda, coraggiosa, consapevole del ruolo e di se stessa, apparentemente superficiale, di volta in volta fanciullesca e matura, ben lieta di sembrare manovrabile ma anche pronta a difendersi con le unghie e con i denti.
È evidente che da Jackie non escono né un santino né una critica feroce, ma proprio ciò che Larrain voleva: una sorta di manuale di sopravvivenza in un mondo che non fa sconti e che è pronto ad approfittare della minima debolezza per sgombrare la strada ai potenti. Ed è anche evidente che, se qualcuno cercasse una verità definitiva su Jackie o addirittura sulla morte di Kennedy, avrebbe scelto il film sbagliato.
Qui possiamo ammirare l’interpretazione sobria e, in un’apparente monotonia, intensa di Natalie Portman, lo straordinario contributo musicale di Mica Levi fatto di dissonanze che corrispondono agli stati d’animo del personaggio, il montaggio accuratissimo di Sebastián Sepúlveda, il contributo scenografico di Véronique Melery e la ferrea volontà di Pablo Larrain che, continuando a realizzare film sulla morte e sui morti, non si preoccupa dei grandi problemi della storia ma cerca di far luce su un’anima tormentata in un luogo e in circostanze che non permetteranno mai al tormento di essere semplice dolore.