INVICTUS

DI FRANCESCO MININNI

A Johannesburg, il 24 giugno 1995, si combatté una battaglia che andava ben oltre il semplice risultato di un campionato mondiale di rugby. Nelson Mandela, presidente del Sudafrica, lo sapeva. Sapeva che per trasformare una pentola a pressione sempre sul punto di scoppiare in una nazione unita nella quale bianchi e neri potessero convivere civilmente e fattivamente era necessario, forse indispensabile, un collante, un obiettivo comune.

E il rugby poteva esserlo. Dal momento in cui la popolazione di colore non tifava mai per la propria nazionale, composta quasi esclusivamente di giocatori bianchi, ma sempre per gli avversari, chiunque essi fossero, Mandela capì che l’occasione, oltre che buona, era anche irripetibile e chiese espressamente al capitano della nazionale, François Pienaar, di vincere il mondiale. Ma non solo: chiese anche, e ottenne, che tutta la squadra scendesse per le strade, prendesse contatto con la gente, andasse nei quartieri poveri a insegnare il rugby ai bambini. La trasformò in un simbolo di identità nazionale e, con intelligenza e passione, ottenne lo scopo. Certo, non senza che i giocatori ci mettessero del loro: fino a quel momento il livello del rugby sudafricano non era eccelso.

Se il 24 giugno, dunque, la nazionale vinse battendo in finale gli All Blacks della Nuova Zelanda, vuol dire che progressi tecnici e motivazioni diverse avevano fatto il miracolo. Se tutto questo nasce da una persona che, a più riprese, aveva passato quasi trent’anni in carcere per difendere i diritti propri e di un popolo intero, riuscendo a resistere, a sopravvivere, a raccogliere tanti consensi da vincere le elezioni presidenziali e, infine, a compattare una nazione come il Sudafrica, bisogna concludere che il miracolo della vittoria sugli All Blacks è proprio l’ultimo in ordine d’importanza.

«Invictus» non nasce da Clint Eastwood, che ne è stato in un certo senso il semplice esecutore. L’idea, il progetto, la volontà sono tutti di Morgan Freeman che, oltre ad essere un attore di straordinaria intensità e umanità, ha avuto anche il privilegio di conoscere personalmente il presidente Mandela, che ammise pubblicamente di desiderare, nell’eventualità di un film sulla sua persona, che fosse proprio Freeman ad interpretarlo. E nasce anche da una poesia di William Ernest Henley: «Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo che va da un polo all’altro, ringrazio tutti gli dèi per la mia anima indomabile». Qui subentra Clint Eastwood che, contattato da Morgan Freeman, accetta volentieri e presta a «Invictus» la propria maturità, il proprio senso classico dello spettacolo e, perché no, la propria incrollabile fede nell’individualismo. Anche se, questa volta, l’individualismo si trova di fronte due ostacoli di non poco conto: da una parte la necessità di far confluire eventuali personalismi in un solido gioco di squadra (il rugby), dall’altra la figura di Nelson Mandela che applicò al Sudafrica contemporaneamente un carattere di ferro e una infinita dolcezza, le due componenti principali della sua persona.

“Invictus” non è sicuramente il film più rappresentativo della raggiunta maturità di Eastwood, ma rappresenta comunque una bella lezione di adattabilità ad argomenti diversi, la credibile cronaca di una vittoria (in opposizione a «Mystic River» e «Million Dollar Baby», che raccontano sconfitte) e soprattutto una serata d’onore per un attore, Morgan Freeman, che non è soltanto somigliante a Mandela nei tratti fisici, ma riesce realmente a trasmetterne con estrema naturalezza le peculiarità del carattere e la statura morale. È soprattutto grazie a lui se «Invictus» vola alto e riesce persino a far dimenticare che nel ruolo di François Pienaar avrebbe potuto anche trovarsi un attore diverso da Matt Damon. Nel senso che, in un cast composto interamente da attori di poca fama e dominato dai nomi di Freeman e Damon, ci si aspetta che entrambi abbiano analogo spessore e rilevanza. Invece Matt Damon sembra presente più che altro per rendere il pacchetto ancora più commerciabile a livello internazionale, mentre non solo la scena è tutta per Freeman, ma ci sono personaggi e caratteristi più definiti del suo. Ciò non toglie che «Invictus» sia un’ottima occasione per una lezione di storia e uno spettacolo di altissimo livello. La convincente rappresentazione del fatto che un’utopia non è destinata per forza a rimanere nel limbo delle promesse non mantenute: talvolta anche l’impossibile può accadere.

INVICTUS (Id.) di Clint Eastwood.Con Morgan Freeman, Matt Damon, Marguerite Wheatley, Tony Kgoroge, Matt Stern.USA 2009; Drammatico; Colore.