INTO THE WILD
DI FRANCESCO MININNI
Christopher McCandless non è un personaggio di finzione. All’inizio degli anni Novanta, appena laureato, lasciò il West Virginia, la famiglia e le comodità della vita borghese per andare alla ricerca della verità. Una verità che, dettata dai suoi ideali democratici e progressisti, non poteva assolutamente risiedere in una carriera, in un’automobile, in una bella casa, in un conto in banca. Meglio andare a cercarla nella natura. Ispirato al libro di Jon Krakauer, il film «Into the Wild» non fa che confermare l’indole anarcoide di Sean Penn, che in un certo senso si serve dell’esperienza di McCandless per suonare l’ennesimo requiem al consumismo, alle istituzioni (nel caso specifico alla famiglia), all’avere rispetto all’essere. E Penn, che è tutt’altro che sprovveduto, riesce a organizzare un film che, al di là di lungaggini evitabili, parla molto chiaro ed è aiutato in questo da uno straordinario viaggio nell’America rurale, dal Sud Dakota al Colorado, dal Nevada alla California, che trova il suo compimento nella bianca desolazione dell’Alaska, dove McCandless troverà la morte in solitudine. In tutto questo c’è da chiedersi quanto il gioco valga la candela. Se cioè il fatto di poter morire da uomo libero sia sufficiente alternativa a tutto quanto McCandless avrebbe potuto fare con le sue idee applicate alla vita sociale. In questo senso «Into the Wild» mette in campo un’interessante analogia. Possiamo dire, infatti, che per scelta di tematiche e modalità di rappresentazione Sean Penn riesca a ricondurre il pubblico nelle atmosfere tipiche del cinema americano degli anni Settanta, quando Jack Nicholson in «Cinque pezzi facili», Barry Newman in «Punto zero» e Goldie Hawn in «Sugarland Express» reagivano a un mondo che non capivano scegliendo la via della fuga. C’era chi sfidava la polizia, chi il potere costituito in senso generico, chi un semplice legame familiare. Qualunque cosa, pur di evadere. E il fatto che nella maggioranza dei casi queste fughe avessero una conclusione negativa dimostrava che il potere era comunque più forte e che la fuga era senza scampo.
Sean Penn si riconosce perfettamente in questo quadro ideologico e sociale. Infatti, pur rendendo omaggio al grande spirito di McCandless, non può fare a meno di far trasparire un pessimismo a doppio taglio. Da una parte c’è una famiglia sottilmente repressiva che in un certo senso costringe il ragazzo a una scelta estrema. Dall’altra c’è il fatto che l’estremizzazione della scelta prefigura comunque un’ambiguità. McCandless non è un ribelle senza causa, ma muore senza un perché. Il suo idealismo estremo, comprensibile in una società che non lascia spazi per idee contrarie alla logica del consumo, non sembra alla fin fine abbastanza per morire: casomai, sarebbe stato un ottimo punto di partenza per cercare di cambiare le cose.
«Into the Wild» è un film ben costruito tra l’ampio respiro delle immagini e l’orizzonte sempre più ristretto del protagonista. Penn, forse non del tutto consapevole delle possibili ambiguità del testo, si muove come un rullo compressore cercando di schiacciare tutto quello che gli sbarra il cammino. Christopher McCandless è Emile Hirsch, che si è sottoposto a un lavoro fisico durissimo ottenendo il risultato di far sembrare tutto vero. Ma alla fine ci tornano in mente i versi di Georges Brassens: «Morire per delle idee? Vabbè, ma di morte lenta».
INTO THE WILD (Id.) di Sean Penn. Con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Vince Vaughn. USA 2007; Drammatico; Colore