INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO
DI FRANCESCO MININNI
C’erano alcuni rischi nel rimettere mano alle avventure di Indiana Jones a ventisette anni dal primo film e a diciannove dall’ultimo. Ad esempio che Steven Spielberg, avendo perso la frequentazione con il genere, si trasformasse in un clone di Spielberg. O che una sceneggiatura riscritta chissà quante volte desse vita a un film frammentario. O che Harrison Ford perdesse la sfida con l’età. E poi il rischio più grosso: che, a seguito dei progressi tecnici, il film si trasformasse in una serata di gala del computer, ovvero che George Lucas riuscisse a imporre la legge di Guerre stellari. Ebbene, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo non è niente di tutto questo. Spielberg, ripreso saldamente il timone dell’operazione, si è saggiamente immerso nel passato recuperando uno stile che con gli anni aveva subito numerose modifiche, pretendendo e ottenendo effetti speciali tanto eccellenti quanto artigianali, puntando più al classico che al tecnologico, insomma lasciando spazio alla fantasia semplice dei fumetti d’avventura. Che era in realtà l’unica strada percorribile per sperare di ottenere un film in linea con la trilogia già esistente.
Nel 1957, in piena guerra fredda, il Kgb nella persona della temibile Irina Spalko dà la caccia a un leggendario teschio di cristallo che dovrebbe garantire un potere assoluto. Indiana Jones, un po’ invecchiato ma sempre in forma, è coinvolto nella caccia insieme a Mac, al giovane Mutt Williams (che si rivelerà essere suo figlio), a Marion Ravenwood (proprio la Marion de I predatori dell’arca perduta) e al professor Oxley. Ci saranno tradimenti, doppi giochi e impedimenti di ogni genere. Ma alla fine la verità del teschio sarà svelata.
Con l’esclusione di uno scioglimento finale che sa troppo di Incontri ravvicinati del terzo tipo mixato con i poteri dell’arca perduta, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo viaggia sui binari di un’avventura che, stuzzicando le nostre memorie d’infanzia, ci restituisce il piacere di un divertimento semplice ed essenziale. Senza complicazioni elettroniche né fracasso digitale, Spielberg sa tornare alla radice di un sano spettacolo senza compromessi con le mode correnti. E l’assenza di compromessi vale anche per i contenuti: buoni da una parte, cattivi dall’altra, qualcuno nel mezzo. Certo, Indiana Jones è un eroe patriottico e lo dimostra battendosi prima con i nazisti, poi con i russi (proprio nel senso di «tovarich»): ma il suo movente non è simbolico e non tira la volata a chicchessia nel panorama democratico o repubblicano. Indiana Jones combatte per la conoscenza e per l’accrescimento dell’umano sapere. E tanto basterebbe per riservargli un posto d’onore nel consesso degli irrimediabili idealisti.
Spielberg si diverte molto a citare se stesso ed altri con l’entusiasmo di un ragazzino. Il film si apre nel deposito militare dove è conservata l’arca dell’alleanza. Irina Spalko, ottimamente interpretata da Cate Blanchett, sembra una diretta filiazione di Rosa Klebb (Lotte Lenya) di Dalla Russia con amore. Quando i nostri eroi escono dal sotterraneo spinti in un tunnel verticale da un getto d’acqua, la memoria va all’uscita dal vulcano con la spinta della lava in Viaggio al centro della Terra. E che dire di Mutt che raggiunge i compagni di fuga lanciandosi da una liana all’altra in compagnia di un esercito di scimmie? Ce n’è per tutti, forse anche per chi non vorrebbe avendo deciso a priori che una tale operazione nostalgia non sia degna dell’autore di Schindler’s List. Ma allora, che mondo sarebbe senza un po’ di divertimento?