Incubo senza inizio e senza fine: «MULHOLLAND DRIVE»
DI FRANCESCO MININNI
Da una parte ci sono una bruna che ha perso la memoria, una bionda appena arrivata a Los Angeles per fare l’attrice, un regista che sta preparando un film e che qualcuno vorrebbe costringere a scegliere una sconosciuta come protagonista, un produttore-burattinaio immobilizzato e potente. Dall’altra ci sono gli stessi personaggi, ma cambia qualcosa: la bruna è diventata protagonista del film, la bionda è la sua amante gelosa, i nomi non sono più gli stessi. Nel mezzo, come discriminante della vicenda, un teatro dove a tarda notte un intrattenitore parla di musica, di silenzio, di vero e di falso prima di scomparire in una nuvola di fumo. Rieccoci con David Lynch: chi è chi nei suoi incubi?
Bravissimo a raccontare la realtà trasformandola in un mondo parallelo dove si perdono i punti di riferimento e si finisce per avere l’impressione di trovarsi nella medesima condizione dei protagonisti, Lynch è un narratore di fiabe senza regole, senza lieto fine, senza certezze, persino senza conclusione. E soprattutto senza misura. La misura, che permetterebbe al pubblico di tirare il fiato e soffermarsi a riflettere, è un elemento che Lynch ignora: non perché non lo conosca, ma perché trasforma la sua assenza in un elemento di stile. Così, se per oltre un’ora si ha l’impressione di assistere a un noir del quale prima o poi ci verrà svelata la conclusione, l’episodio del teatro trasforma «Mulholland Drive» nel «solito» incubo senza principio e senza fine.
David Lynch ritrova le radici del proprio cinema, quello che turbò i sonni di molti con «Eraserhead», che esplorò abissi di perversione con «Velluto blu» e che rimescolò le carte dell’esistenza con «Strade perdute». Un cinema estremo che può essere accettato soltanto a patto di non porsi domande di alcun genere. Come dire che, se Betty diventa Diane e Rita diventa Rebecca, va bene così, non c’è niente di strano. E che un’esistenza che sembra contemporanea ma è anche piena di riferimenti alla Los Angeles degli anni Quaranta, con personaggi che entrano ed escono come fantasmi inducendo a chiedersi se e quale sia la vita vera, può essere una cosa perfettamente normale. Perché «Mulholland Drive», affascinante e irritante al tempo stesso, è conferma di un genio irrequieto e vagante in un altrove che assomiglia sempre meno al mondo in cui viviamo e sempre più a un abisso nel quale non vorremmo scendere. Il cinema di Lynch, impossibile da accettare senza discutere e impossibile da discutere senza ritrovarsi a girare a vuoto, è la faccia oscura di una Luna che credevamo di conoscere e che invece sembra allontanarsi sempre più ogni volta che dà l’impressione di lasciarsi afferrare.
MULHOLLAND DRIVE (Id.) di David Lynch. Con Naomi Watts, Laura Harring, Justin Theroux. FRANCIA/USA 2001; Thrilling; Colore