Il Vietnam dietro l’angolo: «TIGERLAND»

DI FRANCESCO MININNI

Una buona idea, quella che non t’aspetti: Joel Schumacher, confezionatore di spettacoli ad alto costo come «Batman Forever», «Batman e Robin», «Il momento di uccidere» e «8 mm», prende una cinepresa a 16 mm, un gruppo di attori bravi ma poco conosciuti e, in 28 giorni, gira «Tigerland». Che non è un capolavoro e neanche un grande film, ma rappresenta degnamente quel cinema di idee che troppi dollari potrebbero far dimenticare.

Prendete «Full Metal Jacket», toglietegli la seconda parte (quella del Vietnam) e avrete «Tigerland», un manuale di addestramento militare dove potremmo scoprire che forse non era necessario andare in guerra per combattere e rischiare di morire. Tigerland, infatti, è il nome di un campo d’addestramento dove era ricreata con il maggior realismo possibile la situazione nella quale si sarebbero trovati i ragazzi al fronte. Qualcuno faceva l’americano, qualcuno il vietcong. Qualcuno prendeva tutto troppo sul serio, qualcuno faceva il possibile per non lasciarsi stritolare dall’ingranaggio. Qualcuno moriva, persino. Ma il soldato Buzz non ci sta: prima individua alcuni soggetti che non hanno i requisiti e li aiuta a tornare a casa, poi è nominato capo plotone e dimostra di avere la stoffa del capo, infine progetta una fuga in Messico che non metterà in atto. Forse è morto in Vietnam, forse è tornato e si gode la vita ad Acapulco.

È evidente che «Tigerland» non può correre in solitudine e che il fantasma di Kubrick aleggia su tutto il film. Ma non è una pregiudiziale: in fin dei conti sono passati molti anni da «Full Metal Jacket» e l’ottica non è esattamente la stessa. Schumacher, sulla base di una sceneggiatura dell’esordiente Ross Klavan, racconta la storia di un guerriero nato, di un uomo con la vocazione del comando, ma che nel caso specifico non avverte la necessità né di combattere né di comandare. Un bel conflitto psicologico che la notevole interpretazione di Colin Farrell rende chiarissimo. E quando le immagini sgranate, il fango, i proiettili ci fanno credere di trovarci veramente in Vietnam, è opportuno non dimenticare mai che quella, invece, è l’America, per la quale si deve essere disposti a morire anche lontano dai campi di battaglia.

«Tigerland» non parla di condizionamenti della personalità, di giovani mandati a morire e forse neanche di violenza e pallottole. Parla di una guerra sempre più vicina e interiorizzata, di conflitti che non hanno bisogno di campi di battaglia per essere combattuti, di un «paese delle occasioni» che incontra difficoltà sempre maggiori a mantenere la propria fama. Fortunata quella terra che non ha bisogno di eroi, sì, ma anche di semplici sacrifici umani.

TIGERLAND (Id.) di J. Schumacher. Con C. Farrell, M. Davis, C. Collins jr., T. Guiry.