«IL SUO NOME È TSOTSI»

DI FRANCESCO MININNITsotsi (che si pronuncia Zazzi, non Zozzi) è un termine slang che indica la figura del gangster. In realtà il protagonista del film di Gavin Hood «Il suo nome è Tsotsi», più che un gangster è un poveraccio che, non avendo un lavoro né intendendo cercarlo, sbarca il lunario tra un furto e l’altro. Fino al giorno in cui, rubata una macchina, vi trova un neonato che non può riportare, non vuole abbandonare e non sa come accudire. Eppure questo incontro fortuito segnerà la sua vita. Tsotsi si affeziona al piccolo, non gli fa mancare niente e alla fine, quando quel tanto di buono che è in lui ha avuto modo di venire a galla, decide di riconsegnarlo ai genitori, pur sapendo benissimo che questo comporterà l’arresto e la conseguente condanna.Forse «Il suo nome è Tsotsi» è più una favola che un reportage realistico sui bassifondi di Johannesburg, nei quali sicuramente le cose avrebbero finito per andare diversamente. Ma contemporaneamente mostra in Gavin Hood, sceneggiatore e regista, la volontà di andare oltre le tristezze quotidiane per trovare, facendosi beffe di verosimiglianza e realismo, una ragione di speranza.

In un certo senso, il suo film assomiglia molto più a «Miracolo a Milano» che a «Ladri di biciclette». Il che conduce a dover fare una scelta: o rifiutare il film per la sua mancanza di verità, o accettarlo per quel che ha da offrire. In considerazione della scarsità di prodotti sudafricani che approdano al mercato internazionale e di una sincerità che ci sembra precedere il calcolo commerciale, noi siamo propensi a dichiararci favorevoli, soprattutto perché «Il suo nome è Tsotsi», oltre a un messaggio positivo che non è comunque campato in aria e scaturisce da un desiderio interiore, ha da offrire anche una ricerca sull’immagine, un buon lavoro scenografico e un protagonista, Presley Chweneyagae, che ha tutto l’entusiasmo dell’esordiente appassionato. Da qui a scegliere «Il suo nome è Tsotsi» come miglior film in lingua straniera assegnandogli un Oscar che, come minimo, penalizza un film più importante e duro come «Paradise Now» del palestinese Hany Abu-Assad, la strada è lunga. Ma evidentemente a Hollywood hanno evitato una scelta troppo schierata optando per un film che, in fin dei conti, non disturba nessuno ed è tutto sommato facile da amare.

La conclusione è la seguente: «Il suo nome è Tsotsi» non va preso come un’analisi realistica di un paese o anche soltanto di una persona. Lo si può apprezzare soltanto a patto di condividere l’idea centrale: ovvero che nessuna vita è aprioristicamente destinata a questa o quella mèta, ma che chiunque, prendendosi il disturbo di ascoltare la propria coscienza, può decidere in qualunque momento di cambiare strada. E che il potere di convinzione esercitato da un bambino può essere una delle forze più dirompenti di questo mondo.

IL SUO NOME È TSOTSI (Tsotsi) di Gavin Hood. Con Presley Chweneyagae, Mothusi Magano. GB/Sudafrica 2005; Drammatico; Colore