Il sommesso rumore della follia: «ELEPHANT»

DI FRANCESCO MININNILo spettatore che si accinga a vedere «Elephant» di Gus Van Sant non dovrebbe soltanto avere un’idea abbastanza precisa di ciò che il film racconta. La storia, il massacro di 16 tra studenti e professori della Columbine High School ad opera di due studenti che poi si suicidarono, non basta. Lo spettatore dovrebbe essere messo a conoscenza del modo in cui Van Sant ha scelto di raccontare il suo film e soltanto allora entrare in sala per attendere che si spengano le luci.

Niente a che vedere con il reportage caustico e polemico di Michael Moore «Bowling a Columbine», che cercava le radici della violenza accumulando materiale documentario e interviste di ogni genere. Van Sant, invece, ha scelto una via enormemente più difficile, che soltanto in apparenza accomuna il suo film a certi thriller catastrofici come «Panico nello stadio»: la presentazione dei diversi personaggi, l’arrivo di un elemento perturbante, la consapevolezza che molti di quei personaggi moriranno senza ragione.

Ma «Elephant», un titolo simbolico che indica l’enormità dell’avvenimento narrato, va in una direzione che allontana ogni sospetto di compiacimento spettacolare: lasciando che i suoi personaggi si muovano liberamente davanti alla macchina da presa, in un certo senso filmando la vita senza interferenze di sceneggiatura, Van Sant tenta di farci capire come la follia e la violenza siano talmente radicate nella nostra società da rendere quasi impossibile individuarle, riconoscerle, isolarle prima che esplodano.Molto più legato a una ricerca di stile (molti piani sequenza, lunghe inquadrature fisse, un’attenta ricerca fotografica e musicale) che a un piano socio-psicologico studiato a tavolino, «Elephant» riesce proprio per questo ad essere gelidamente impressionante e a lasciare il segno, come a suo tempo accadde per «A sangue freddo» di Richard Brooks.

Van Sant non intende darci spiegazioni né ridurre il suo lavoro alla storia di «quel» massacro: si limita a mostrare cose e persone e a informarci che, indipendentemente dalla nostra buona o cattiva volontà, certi avvenimenti accadono. Senza concessioni allo spettacolo, senza compromessi drammatici, senza strizzate d’occhio: possiamo dire che «Elephant» è un film rigoroso, ovverosia scarno ed essenziale, che con la sua rinuncia ad esplorare le ragioni della follia rischia di farci capire molte cose. Ad esempio, che il pazzo non deve urlare e strabuzzare gli occhi per essere classificato come tale: il pazzo può essere educato, camminarci accanto senza infastidire, vivere un’esistenza assolutamente normale, sorridere e ridere come tutti gli altri. Per questo, quando il sommesso rumore della follia diventa un boato, può essere molto difficile difendersi.

ELEPHANT (Id.) di Gus Van Sant. Con Alex Frost; Eric Deulen, Timothy Bottoms. USA 2003; Drammatico; Colore