«IL SIGNORE DEGLI ANELLI: IL RITORNO DEL RE»
In questo Jackson, diversamente da quanto avrebbe fatto ad esempio Tim Burton, non si è lasciato fuorviare né da manie di grandezza né da deliri scenografici né dal miraggio del kolossal: «Il Signore degli Anelli» è certamente un kolossal, ma non fine a se stesso. A parte il fatto che vi scendono in campo elfi, nani, orchi, olifanti, hobbit e stregoni, appare evidente che prima Tolkien, poi Jackson ci hanno raccontato una storia che ci riguarda tutti da vicino e che è la storia dell’inarrestabile fiume della vita: una sorgente, molti affluenti, rapide tumultuose, persino qualche cascata, rocce sporgenti, silenzio e fragore e finalmente l’arrivo al mare.
«Il ritorno del Re», che chiude la trilogia, ha un difetto diametralmente opposto a quello dell’episodio di apertura «La compagnia dell’anello»: mentre quello allungava troppo i tempi per arrivare soltanto all’inizio del viaggio, questo, per tirare le fila di tutti i racconti iniziati, è costretto a una sintesi che lascia fuori qualcuno (dove sono Saruman e Vermilinguo?) e che fa sembrare le tre ore e venti di durata persino poche rispetto al necessario.
Ma la mancanza di difetti in oltre nove ore di film è un’utopia irrealizzabile. Meglio, allora, compiacersi dei molti meriti. La capacità di Jackson nel restituire con tanta proprietà (ad eccezione di Cate Blanchett/Galadriel) le creature dell’immaginario di Tolkien. La bravura degli sceneggiatori nel non perdersi per strada i pezzi del racconto. Le straordinarie bellezze naturali neozelandesi cui si affianca il grande lavoro degli architetti e scenografi (la città di Minas Tirith è un vero capolavoro).
Le battaglie, piatto forte del film, che evocano senza timori reverenziali l’assedio di Troia cantato da Omero e la battaglia di Azincourt narrata da Shakespeare. E infine Gollum/Smeagol, questo straordinario personaggio dalla doppia anima il cui ruolo sarà fondamentale nella soluzione del contendere e che, nonostante l’appartenenza alle schiere dei cattivi, non può non suscitare un sentimento di pietà. Peter Jackson sarà anche un folletto bizzarro e un po’ pazzo.
Ma chi, se non un folle, avrebbe potuto affrontare il romanzo di Tolkien con la precisa volontà di non lasciare fuori niente? Il nostro immaginario, che quando siamo in tanti diventa collettivo, gioisce e ringrazia.