Il sacrificio del cervo sacro
Capace, indubbiamente, di mostrare quarti di nobiltà, ispirazioni colte e ricerca di abissi esistenziali, ma spesso fermo davanti a un aggiornamento che non riesce a concretizzare. Stando così le cose, le sue provocazioni che rendono i suoi film per così dire urticanti si rivelano a lungo andare fini a se stesse trasformando tutto in qualcosa di indisponente. Molto lodato per The Lobster, sul quale ci teniamo tutti i nostri dubbi, ritenta il colpo con Il sacrificio del cervo sacro. E i dubbi aumentano.
Il dottor Steven Murphy, chirurgo di fama, sembra vivere una vita perfetta. Una moglie, Anna, e due figli, Kim e Bob, in un contesto domestico geometrico e senza sbavature dovrebbero essere la prova dell’eccellenza. Ma Steven ha qualche mania: ad esempio fa sesso con Anna col metodo della cosiddetta anestesia totale, con la moglie immobile che si finge priva di sensi. Mal di poco, si dirà. Ognuno ha le proprie fissazioni. Ma tutto cambia aspetto quando nel campo visivo della famiglia entra Martin, adolescente legato a Steven dal ricordo del padre, un suo paziente morto sul tavolo operatorio. E, introdotto in casa come studente di medicina e amico, rivela progressivamente il proprio desiderio di vendetta. Se Steven non ucciderà uno dei suoi familiari, tutti si ammaleranno e moriranno con gli stessi sintomi. Come dice Martin, è la cosa più vicina alla giustizia che gli sia venuta in mente.
È evidente che il primo e più importante riferimento è a Euripide e al suo dittico Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride, dove Agamennone in viaggio verso Troia accetta di sacrificare la figlia pur di placare l’ira degli dèi che ostacolano il viaggio. Il cervo sacro (che nel film non c’è) è l’alternativa offerta da Artemide alla morte della fanciulla. Questo scenario di per sé abbastanza cupo è trasformato da Lanthimos in irreversibile e senza uscita. Non solo le colpe abitano già casa Murphy, ma nessun atto sacrificale o meno potrà cambiare lo stato delle cose.
Il ritorno alla normalità equivale in questo caso alla meccanica accettazione di una situazione più che paradossale, disumana, che potrà essere vissuta soltanto con l’indifferenza e l’azzeramento dell’ordine morale. Qui subentrano i due mentori cinematografici di Lanthimos. Michael Haneke con la sua rappresentazione di ordinarie follie che in alcun modo possono essere corrette o anche solo affrontate, e Stanley Kubrick con le sue consequenziali vicende di sconfitte umane, storiche e cosmiche.
E Kubrick, d’altronde, subentra anche a livello tecnico e scenografico. In fin dei conti i lunghi corridoi dell’ospedale, le gelide atmosfere domestiche, gli arredamenti freddi e impersonali sono gli stessi (secondo Lanthimos) di Shining e Eyes Wide Shut. Il problema è che ciò che in Kubrick cambiava l’assetto di un mondo conosciuto trasformandolo da rassicurante in pauroso e diverso, in Lanthimos entra a piedi uniti in una realtà che è già distorta e non avrebbe bisogno di ulteriori peggioramenti. Ne consegue che, essendo nessuno senza colpa o redimibile, si vengono a perdere i ruoli.
Tutto è fatidico e viene da pensare che sarebbe accaduto anche senza l’intervento di un Martin qualunque la cui funzione finisce per essere molto letteraria e poco giustificabile. Gli attori si muovono di conseguenza: Colin Farrell non potrà mai essere più cupo di così, Nicole Kidman mai più gelida e più assimilabile a un automa che a una donna. E l’irlandese Barry Keoghan è un Martin da uccidere, perché neanche lui invoca o merita pietà.
Poi la musica che, come Kubrick insegna, può spaziare dallo Stabat Mater di Schubert e dalla Passione secondo San Giovanni di Bach alle risonanze elettroniche di György Ligeti e Sofia Gubaidulina. Peccato che tutto questo ci abbia trasmesso soltanto fastidio e una ricorrente impressione di gratuità.
IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO (The Killing of a Sacred Deer) di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Nicol Kidman, Barry Keoghan. GB/USA/IRLANDA 2017; Drammatico; Colore.