Il regno d’inverno
Se possiamo trovare un difetto ne «Il regno d’inverno» è proprio in questa attesa che a lungo andare diventa anche sfiancante del momento in cui si aprirà una porta e ci permetterà di diventare parte attiva e non soltanto pubblico perplesso.
Conoscevamo già da «Uzak» e «C’era una volta in Anatolia» la propensione di Ceylan per i ritmi distesi, per i serrati confronti dialettici, per i paesaggi che diventano parte attiva del racconto. Qui, però, tutto questo diventa protagonista assoluto, tanto da rendere difficile pensare che «Il regno d’inverno» possa essere una semplice rappresentazione simbolica della Turchia.
È molto probabile, invece, che rivolgendosi ancora una volta al proprio nume tutelare Cechov, di sponda al maestro dell’incomunicabilità Bergman e, con la scelta di chiamare il resort del protagonista «Othello», persino all’immortale Shakespeare, Ceylan abbia voluto parlare (e dire semplicemente sarebbe improprio) di rapporti umani, di quanto possa essere difficile valutare una persona, persino della possibilità che il dubbio permanga senza arrivare a una precisa chiarificazione.
In questo, naturalmente, gli aspri paesaggi della Cappadocia giocano un ruolo fondamentale consentendo all’autore di raccontare una storia di incomprensioni e confronti in un contesto temporale che sembra non mutare, non procedere. Ceylan è riuscito in qualche modo a fermare il tempo e, in quel villaggio immutabile, a parlare di verità e menzogna, di cinismo e disponibilità, di sentimenti negati, di desiderio di uscire che probabilmente non diverrà realtà. Solo in questo senso, nel confronto tra una volontà di conservazione e un’aspirazione alla novità, si può leggere il film come immagine traslata della situazione sociale della Turchia.
Aydin, che da aspirante attore è diventato proprietario di immobili e scrittore per riviste, gestisce il resort «Othello» insieme alla giovane moglie Nihal. Per meglio dire, non proprio insieme. Aydin ha una personalità forte, accentratrice e anche conservatrice. Nihal non ha mai avuto la possibilità di un percorso autonomo di alcun genere. E lui è seriamente convinto di essere nel giusto, di essere in grado di dare buoni consigli in virtù di una maggiore esperienza, ma anche di giudicare bene e di essere un uomo onesto e pronto all’ascolto. Una semplice interferenza in un’attività benefica di Nihal, però, darà il via a un confronto spietato proprio in concomitanza con la caduta della prima neve.
Ceylan ci chiede pazienza e attenzione. «Il regno d’inverno» non è un film che si possa gustare come un piatto di fast food, ma richiede concentrazione e occhio per le sfumature. Con il contributo fondamentale di Haluk Bilginer e Melisa Sozen, mette in scena un rapporto che, eliminate le discendenze letterarie, invoca un realismo che non riguarda soltanto il paese di ambientazione che anzi, proprio per le scelte espressive dell’autore, sembra evocare uno scenario da favola che non prevede né principe azzurro né lieto fine.