Il racconto dei racconti
Per quanto ispirato alla secentesca raccolta di fiabe del napoletano Giambattista Basile «Lo cunto de li cunti», è diretto da un autore che nella sua carriera ha sempre mostrato uno stile realista e, anche in presenza di elementi surreali o paradossali, la ricerca del realismo.
E anche stavolta Garrone mantiene le proprie caratteristiche, applicandole coraggiosamente a un campo che richiederebbe voli di fantasia, scenografie fantastiche e tutto quanto può preludere all’entrata in scena di negromanti, orchi, streghe e bestie immaginarie. Che ci sono, beninteso, ma non circondati da quell’aura magica che li rende normalmente misteriosi e quasi irreali: Garrone li riporta a una dimensione reale che esclude a priori la dimensione della fiaba. Contemporaneamente, tuttavia, essi mantengono il proprio status di orco, strega e quant’altro e questo finisce per creare una sorta di attrito tra storia narrata e stile narrativo.
Questo sarebbe giustificato se «Il racconto dei racconti» avesse un intento simbolico, se cercasse cioè di aggiornare la fiaba secentesca applicandola a un realismo contemporaneo. A noi pare invece che il realismo sia confinato nel passato, cioè con l’intento di raccontare una o più fiabe mettendone in evidenza non gli aspetti magici ma quelli più duri, drammatici, tragici, sanguigni. Se così fosse, l’operazione di Garrone sarebbe senz’altro consapevole, immersa in scenografie realistiche assai suggestive, occasionalmente pittorica nell’evocazione dei dipinti di corte di Goya, attenta all’uso del colore così come della musica (di Alexandre Desplat) e del silenzio, ma comunque limitata.
«La cerva fatata»: una regina ossessionata dall’idea di avere un figlio ascolta un negromante e mangia il cuore di un drago marino cotto da una vergine. Entrambe restano incinta e partoriscono due figli che crescono insieme inseparabili. Ma la regina è disposta a tutto pur di separarli. «La pulce»: un re adotta una pulce che cresce a dismisura. Quando muore, indice una prova da cui uscirà il marito di sua figlia Viola. Siccome il vincitore è un orco, per Viola si prospetta un avvenire duro. Ma la ragazza è piena di risorse… «Le due vecchie»: un re donnaiolo si innamora di una voce che ha sentito cantare. Associandola automaticamente a una ragazza bellissima, la corteggia senza sapere che è una vecchia cadente. Questa, grazie a una strega, ritrova la giovinezza e sposa il re. Sua sorella, invece, resta vecchia e sola e, pur di ringiovanire, paga un arrotino perché le tolga la pelle.
In un film cosparso di elementi (più che citazioni) tipici di Fellini e Pasolini, ma anche di segnali che lo individuano proprio come di Garrone, continua a sfuggire la reale motivazione. Se cioè Garrone non ha voluto realizzare un fantasy (e non lo ha voluto), resta per noi inafferrabile la reale direzione del racconto. Certo, si notano analogie nei tre episodi che rendono la narrazione in un certo qual modo ciclica. Il voler separare l’inseparabile riguarda sia i due neonati che le due vecchie sorelle. La regina e i due re hanno un’ossessione ciascuno (molte diverse tra loro) e seguono la loro strada senza prestare orecchio al buonsenso fino a un inevitabile capolinea. La regina si trasforma in drago e la vecchia torna giovane (percorsi entrambi reversibili).
La smania di possesso, applicata a persone o animali, è comunque destinata a fallire. Alla base di tutto, un persistente senso di morte che accompagna tutto il film. Il che significa, se non altro, che non è vero che alla fine di una fiaba vissero tutti felici e contenti. Il realismo di Garrone è pronto a tutto pur di vincere la battaglia. Ma questa volta, pur tra tanti meriti, ha il difetto di non far capire fino in fondo le proprie intenzioni.