IL PAPÀ DI GIOVANNA
di Francesco Mininni
Ecco il Pupi che non ti aspetti. Si dice Bologna 1938 e si pensa a una nuova incursione nelle memorie familiari che sono indiscutibilmente una delle colonne portanti del suo cinema. Peggio ancora: si rischia di farsi condizionare dal pregiudizio e, alla fine, di rischiare di vedere un film per un altro. Ma con «Il papà di Giovanna» basta quel tanto di attenzione dovuta a un autore che ha fatto un percorso arrivando a piena maturità per rendersi conto che qualcosa è cambiato. Certo, si tratta di memorie familiari: ma di un’altra famiglia. Lo stile, perfettamente riconoscibile, evita accuratamente ogni accenno surreale, ogni appendice umoristica, ogni personaggio di repertorio, andando direttamente al cuore di un problema doloroso e intenso mai affrontato con tanta misura e soprattutto con tanto rispetto. Pupi Avati, come Giovanni Verga ne «I malavoglia», racconta una storia di vinti. E, come nello stile dei grandi veristi, cerca di non intervenire mai in prima persona, ma lascia che siano i personaggi stessi a raccontare, in modi diversi, la propria sconfitta. Che poi è una sconfitta agli occhi del mondo: loro continueranno a vivere nel loro mondo, quello che si sono creati e nel quale riescono persino ad essere disperatamente ottimisti e tristemente felici. Avati racconta questo con la piena consapevolezza di una pietà che non è pietismo e con la ferma intenzione di non esprimere alcun giudizio. Non giustifica i suoi personaggi né li condanna: si limita ad amarli.
Il professor Michele Casali, napoletano a Bologna, ha una figlia, Giovanna, piena di problemi nel relazionarsi con il prossimo e con la realtà. Da qui a ritrovarsi padre di un’assassina, però, ce ne corre. Eppure è quel che accade: Giovanna, convinta di cose inesistenti e follemente gelosa, uccide la sua migliore amica. Poi confessa e, dichiarata incapace d’intendere e di volere, è rinchiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia. Mentre sua madre si estranea da tutto e si rifiuta persino di vederla, suo padre continua a pensare che, nonostante tutto, finirà bene.
Raccontato con uno stile sommesso, mai invadente, «Il papà di Giovanna» non è gratuito, né compiaciuto, né banalmente spettacolare. Avendo a disposizione un direttore della fotografia, Pasquale Rachini, capace di decolorare il mondo per trasformarlo in un universo grigio, e un musicista, Riz Ortolani, controllato fino allo spasimo per evitare sviolinate e melodie, Avati abbandona i colori tenui della memoria per attestarsi sulla freddezza di una realtà che non è necessariamente legata al periodo storico. Perché è evidente che, a dispetto del periodo storico, di qualche bombardamento e di fucilazioni sommarie, «Il papà di Giovanna» non è certo un film sul fascismo. È un film sulla speranza, sulla disperazione, sui sogni, sulla realtà, sul dolore, sulla gioia, sul vivere e sul sopravvivere. È un film sulla gente e sui suoi sentimenti. Ora drammatico, ora lancinante, ora di una sconfinata tenerezza: mai condiscendente o manipolatore. In questo rigore (perché è di questo che in conclusione si tratta), Avati si affida, più che a se stesso e alla propria maestria tecnica, ai suoi attori. E ne viene ripagato in larga misura. Da Silvio Orlando, capace come pochi altri di essere un credibile uomo qualunque; da Francesca Neri, misuratissima nel difficile ruolo della madre; da Ezio Greggio, cui affida un bel personaggio di fascista umano; da Alba Rohrwacher, che nel ruolo di Giovanna riesce a convincerci di non stare affatto recitando. E adesso vediamo se qualcuno parlerà ancora di manierismo.
IL PAPÀ DI GIOVANNA di Pupi Avati. Con Silvio Orlando, Francesca Neri, Ezio Greggio, Alba Rohrwacher, Serena Grandi. ITALIA 2008;
Drammatico; Colore