Il padre d’Italia
Quando si cerca di dimostrare una tesi, sarebbe sempre opportuno cominciare dall’inizio (cioè anche dalla possibilità che sia sbagliata) e seguire un percorso in divenire per poi arrivare alle conclusioni. Se invece si comincia dalla fine, cioè quel punto d’arrivo intoccabile cui tutto il ragionamento deve tendere, si rischia di dare troppe cose per scontate, di schematizzare, di saltare passaggi che avrebbero contribuito al dibattito. Fabio Mollo, già autore di «Il Sud è niente», è profondamente convinto che il desiderio di paternità possa albergare in chiunque, nel caso specifico in un giovane gay che accompagna in giro per l’Italia una ragazza confusa, sopra le righe e soprattutto incinta. Quando, tra Torino, Roma e Napoli, si prende atto dell’impossibilità di trovare il padre, le destinazioni ultime (che sono in realtà le prime) del racconto sono la Calabria, luogo d’origine della ragazza, e la necessità che sia proprio lui a prendersi la responsabilità di una bambina che la madre neanche ha riconosciuto. Così Il padre d’Italia dovrebbe diventare un segnale di vita, un messaggio di speranza e un desiderio quasi impossibile che magicamente si realizza. Il problema è che Mollo, con tutte le buone intenzioni, non ha alcun desiderio di aprire un dibattito. La fine è scritta da subito.
Paolo, commesso a Torino, è stato appena lasciato da Mario dopo una storia lunga otto anni. In un locale gay incontra Mia, che è incinta e ha un malore. Prima la porta al pronto soccorso, poi si lascia convincere ad accompagnarla a Roma dove dovrebbe trovarsi il padre del nascituro. È solo la prima bugia di Mia: l’uomo è morto da un anno e, dice lei, sarebbe stato il padre che avrebbe voluto. La seconda tappa è Napoli, ma il padre non è neanche lì. Paolo e Mia finiscono in Calabria, nel paese di lei, dove Nunzia, madre della ragazza, consiglia a Paolo di lasciarla perdere perché non c’è niente da aspettarsi da «una così». A questo punto Mia sparisce e Paolo torna a Torino facendosi venire a prendere da Mario. Appena tornato riceve una telefonata da un ospedale calabrese: Mia ha partorito prematuramente, se n’è andata senza riconoscere la bambina e ha lasciato il nominativo di Paolo dicendo che sarebbe venuto di sicuro. E lui va.
Un po’ «Una giornata particolare», un po’ «Viaggio in Italia», un po’ «Qualcosa di travolgente», Il padre d’Italia riesce comunque a dare un’idea precisa della precarietà dei giovani, di un mondo che non aiuta né fa sconti, di quanto l’idea del domani possa essere evanescente e difficile da focalizzare. Mollo lo racconta con immagini belle, servendosi di due attori bravi come Luca Marinelli e Isabella Ragonese cui si affianca in chiusura Anna Ferruzzo nel ruolo della madre. L’idea della paternità di un gay, però, sembra preponderante rispetto al resto. Lo si capisce da un percorso apparentemente accidentato che in realtà è già predisposto per quel tipo di conclusione. Ma lo si capisce anche dalla semplice considerazione che il modo in cui l’autore immagina e rappresenta il personaggio di Mia, che vive alla giornata, sfugge le responsabilità, mente per costituzione e si lascia tutto alle spalle senza remore, non è esattamente un grande spot per il genere femminile e porta comunque alla conclusione che non può essere che Paolo a prendersi la responsabilità di Italia (così si chiama la neonata) in un doppio ruolo paterno e materno. Poco importa, poi, se la prospettiva di un’analisi del Dna non potrà che escluderlo dal ruolo di padre rendendo quindi problematica la sua acquisizione della piccina come figlia. Il film finisce prima di questo, con la mano di Paolo che sfiora quella di Italia nell’incubatrice. Lieto fine? Non diremmo proprio. Piuttosto la presa d’atto di una realtà forzata e piegata alle proprie aspirazioni che alla prova dei fatti potrebbe diventare un’altra utopia.