Il nome del figlio
«Il nome del figlio» di Francesca Archibugi prende ispirazione dal medesimo testo trasportandolo dalla Francia in Italia, più precisamente a Roma. Insieme allo sceneggiatore Francesco Piccolo, l’Archibugi si libera quasi subito dagli stereotipi della commedia francese, da certe motivazioni genericamente politiche e dalla necessità che tutto cambi perché nulla cambi, che è poi uno dei dati più ricorrenti del genere transalpino e che porta questo tipo di commedie ad assomigliarsi molto l’una con l’altra. Però, a cose fatte, le differenze non sono così marcate perché, sfuggendo ai luoghi comuni altrui, «Il nome del figlio» cade nei propri, ovvero quelli tipici del cinema italiano che chiameremo generazionale e che prevede un faccia a faccia dai toni piuttosto elevati, la presa d’atto che una determinata generazione ha fallito, l’alternanza di memorie dolci e amare da confrontare con un presente più che problematico e l’illusione che gridando e sbattendosi in faccia ogni scheletro che spunti dall’armadio si possa arrivare a una via utile per andare avanti.
Paolo Pontecorvo, agente immobiliare, e Simona, scrittrice di successo dalla cultura molto limitata, aspettano un figlio. Sandro, professore precario e scrittore di saggi letti da pochi, è sposato con Betta, sorella di Paolo. I loro figli si chiamano Pin e Scintilla. Poi c’è Claudio, musicista eccentrico, che dovrebbe rappresentare l’elemento di equilibrio. E invece, durante una cena a casa di Sandro e in attesa di Simona che è in ritardo, Paolo si inventa che il nome del figlio sarà Benito. La cosa, se consideriamo che la famiglia Pontecorvo ha un passato di antifascismo e persecuzioni, scatena una reazione spropositata portando i commensali ad aggredirsi con qualunque mezzo dialettico. Anche quando Paolo ammette che si è trattato di uno scherzo e che il nome è Emanuele (che non sarà, perché nascerà una femmina), ci sarà ancora molto da discutere su tutto quello che ormai è stato già detto.
È evidente che in film del genere, se alla base non c’è una sceneggiatura di ferro che porti tutto sul piano della dialettica più serrata, una grande importanza finisce per rivestire la prova dei protagonisti, che praticamente sono in scena dall’inizio alla fine e sono chiamati a interpretare personaggi che prevedono molti acuti e pochissimi mezzitoni. In questo senso Francesca Archibugi ha scelto molto bene sul versante femminile, proponendo Valeria Golino in versione casalinga inquieta (ma è un’insegnante) e Micaela Ramazzotti stile burina ma con un fondo di purezza assoluta in un ruolo sotto certi aspetti autobiografico. Alessandro Gassman e Luigi Lo Cascio, il primo più incline allo sfottò e al cinismo, il secondo apparentemente riflessivo ma come un vulcano sul punto di esplodere, replicano in buona parte quanto già proposto ne «I nostri ragazzi».
A vincere è Rocco Papaleo (Claudio), di gran lunga il personaggio più sfumato e, se non altro, capace di dare alla storia una svolta che almeno assomiglia a una sorpresa. Quanto a Francesca Archibugi, a nostro modo di vedere commette un errore imperdonabile: pur di non rendere i paragoni con l’originale francese troppo ingombranti, si inventa una serie di flashback sull’adolescenza dei protagonisti che indubbiamente le permettono di uscire dal chiuso dell’appartamento, ma che alla resa dei conti risultano del tutto inutili ai fini dell’andamento del racconto. Così «Il nome del figlio», invece di invocare una personalità e un percorso propri, finisce per essere soltanto l’ultimo di una lunga serie.