IL FLAUTO MAGICO

DI FRANCESCO MININNI

A Kenneth Branagh piace molto affrontare i classici inserendovi elementi personali che siano in grado di fare novità sconvolgendo qualche purista. Così, dopo l’eclettismo razziale di «Molto rumore per nulla», le parti ritrovate di «Hamlet» e la musica di Gershwin, Porter e Berlin per «Pene d’amor perdute», ecco la sfida autentica: «Il flauto magico», libretto di Schikaneder e musica di Mozart, trasformato da inno al razionalismo e alla conoscenza in messaggio di pace e fratellanza. Non si può dire che, dati i tempi in cui viviamo, Branagh abbia parlato a sproposito. Anzi, è evidente che il suo «tradimento» ha un senso ben preciso se inquadrato in un’ottica contemporanea. Ma è anche evidente che l’autore inglese, tanto innamorato di Shakespeare da andare a cercarlo anche dove non si dovrebbe trovare, ha fatto il possibile per rendere la sua provocazione inequivocabile. Tanto per cominciare, ha scelto di ambientare la vicenda dell’opera in uno scenario che, almeno inizialmente, ha tutte le caratteristiche della prima guerra mondiale (comprese le belle carrellate in trincea care al Milestone di «All’Ovest niente di nuovo» e al Kubrick di «Orizzonti di gloria») e che poi, pur assumendo una connotazione più atemporale, fa comunque riferimento a una guerra che potrebbe essere tutte le guerre. Poi ha commissionato a Stephen Fry la traduzione in inglese del testo in tedesco. E infine ha preso l’inno alla conoscenza di Mozart e l’ha trasformato in una invocazione di pace. Ce n’è abbastanza per far indignare quanti ritengono che l’opera di un autore sia qualcosa di intoccabile, ma anche per incuriosire quanti invece apprezzano, di volta in volta, la novità o lo sberleffo.

Tamino, soldato in trincea, sopravvive a un durissimo attacco ed è guidato da tre fate (che si presentano in veste monacale) dalla Regina della Notte. Questa gli comanda di salvare sua figlia, Pamina, dal malvagio Sarastro: in cambio la fanciulla sarà sua. Tamino e il suo buffo compagno di viaggio Papageno arrivano al castello di Sarastro, dove scoprono che in realtà il malvagio è un saggio governante. Con l’aiuto di un flauto magico e di campanelle fatate i due conquisteranno l’amore. Distrutta la Regina della Notte, nel mondo tornerà la pace.

È evidente che le presunte simbologie massoniche di Schikaneder e Mozart, legate agli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità che poi saranno spiriti guida della rivoluzione francese, lasciano il passo all’ansia pacifista di Branagh. Si potrà notare, casomai, come tutto ciò che di positivo accade nel film venga da mani umane e come il flauto stesso sia un manufatto senza alcuna implicazione metafisica.

Come dire che la potenza dello strumento è strettamente collegata all’animo di chi lo suona. In più, scegliendo un’ambientazione realistica che tiene a distanza ogni implicazione favolistica, Branagh smarrisce un po’ la dimensione magica dell’originale per concentrarsi sulle simbologie che più gli stanno a cuore (un esempio per tutti: i carri armati che sembrano uscire dalla bocca della Regina). La musica di Mozart, però, gli viene in aiuto. Come a dire che, con tutte le buone intenzioni, quella è proprio impossibile da tradire.

IL FLAUTO MAGICO (The Magic Flute) di Kenneth Branagh. Con Joseph Kaiser, Amy Carson, René Pape, Lyubov Petrova. GB 2006; Musicale; Colore