Il film: “Sulla infinitezza”, ovvero dalla materia allo spirito

Il cinema dello svedese Roy Andersson (già Leone d’Oro a Venezia nel 2014 e Leone d’Argento nel 2019 per questo film) non lo si può comprendere se lo si guarda come abitualmente vediamo un film, narrativo o documentario che sia; l’atteggiamento necessario per entrare in sintonia con l’autore è quello di chi va a visitare una mostra di fotografie e si sofferma a osservarle per coglierne il valore compositivo, tematico, originale nel riprodurre delle fette di realtà. Dopo un po’ che ci disponiamo a questo atteggiamento contemplativo, non solo si cominciano a notare i dettagli, ma si apprezza la continuità stilistica, la scelta dei soggetti e degli elementi espressivi, si individua una qualche traccia di racconto tra una foto e l’altra. Ecco, è questa la disposizione con cui approcciare Sulla infinitezza, un titolo che si presenta come un trattato filosofico, nonostante il regista più che dimostrare una sua tesi cerchi di mostrare, accostandoli tra loro, diversi frammenti di varia umanità dai buffi connotati.

Quasi fossero cartoline esistenziali in cui si stenta a trovare un filo conduttore, un senso, un perché, ogni scena è composta da un’unica inquadratura. A volte una voce femminile fuori campo introduce queste visioni con un «Ho visto…», cui segue il complemento oggetto, diverso di volta in volta («…un uomo che si era sbagliato»; «…una donna che non era capace di provare vergogna»), senza altri commenti che non siano dati dalla durata dell’inquadratura, dalla messa a fuoco totale, dalla scelta di colori desaturati e dalle situazioni di grottesca normalità in cui si agita una disperata ricerca di senso.

Tra i bozzetti che trovano una certa continuità, c’è quello del pastore protestante che si rivolge a uno psichiatra perché ha perduto la fede. E per quanto il medico appaia indifferente e ben poco professionale, il dramma del pastore, che sogna se stesso in una moderna via crucis fra l’indifferenza e la cattiveria odierne e che nell’adempiere ai suoi doveri liturgici sembra far conto più sull’alcol contenuto nel vino eucaristico che sul suo valore sacramentale, si staglia in tutta la sua disperazione paradossale per uno spettatore che non rimanga distratto. Questo «male di vivere», come direbbe Montale, attraversa la maggior parte degli episodi, passando anche per un richiamo storico a Hitler e al suo esercito sconfitto, quasi fosse un tratto distintivo dell’essere umano. Ma ci sono due eccezioni a tutto ciò: lo stormo di uccelli migratori che aprono e chiudono il film, in movimento mentre l’ennesimo esponente della nostra specie resta impantanato; e l’esclamazione, per una volta dal sapore redentivo, dell’uomo al bar che, di fronte alla neve che cade per Natale su quell’umanità smarrita, si chiede: «Non è comunque fantastico?». «Che cosa?», gli chiedono gli altri. «Tutto», risponde convinto. A quel punto, ciò che abbiamo sentito in precedenza a proposito del fatto che, poiché ogni cosa si trasforma, ciò che oggi siamo, cioè il nostro corpo, potrebbe diventare tra mille anni una patata o un pomodoro trova una via d’uscita proprio in quel «Tutto è fantastico» detto in un bar: una ricerca di infinitezza che va oltre la prima legge della termodinamica.

 

Sulla infinitezza (Om det oändliga); regia e sceneggiatura: Roy Andersson; interpreti: Martin Serner, Bengt Bergius, Thore Flygel); origine: Svezia-Germania-Norvegia 2019; durata: 78 min.