Il film: “Rifkin’s Festival”, in viaggio con Woody nella storia del cinema

Salvo sempre più rare eccezioni, gli ingredienti delle commedie di Woody Allen sono sempre gli stessi: un personaggio principale avatar del regista, pieno di nevrosi, innamorato perso della sua New York, musa fisicamente presente o nostalgicamente distante, intelligente e dall’umorismo pronto e graffiante; una coppia logorata dagli anni, attualmente o potenzialmente infedele; una buona dose di domande esistenziali condite da molta (auto)ironiatesa a smascherare le ipocrisie sociali e la falsa cultura di pomposi eruditi. Non fa eccezione, in questo senso, Rifkin’s Festival, che segue l’aspirante scrittore ex docente di storia del cinema Mort Rifkin mentre partecipa al Festival di San Sebastián con la moglie pubblicitaria Sue, che lui sospetta essere invaghita del nuovo cliente, il giovane e talentuoso regista Philippe. Immerso nelle atmosfere del festival, Mort si abbandona ad un’avventura romantica con una bella dottoressa, e riflette sulla propria vita attraverso la lente del cinema.

Aprire il Festival di San Sebastián con un film ambientato a San Sebastián durante il festival è già di per sé una mossa squisitamente metacinematografica, che però all’interno dell’ultima fatica di Allen diventa una dichiarazione di intenti. Arrivato a un momento nella propria carriera in cui è lecito fare un po’ di bilancio, Woody Allen omaggia i propri maestri, e dopo qualche forse fin troppo impietoso strale verso il cinema contemporaneo si abbandona a ricordi e considerazioni, si interroga sulla propria natura (artista o pedante intellettuale?) senza voler davvero conoscere la risposta agli interrogativi posti, e soprattutto si lancia in una serie di squisiti omaggi a quelli che considera i suoi maestri, aiutato dalla sempre brillante fotografia di Storaro, assieme al quale ricrea alcune delle scene più iconiche della storia del cinema.

Ecco allora che Wallace Shawn, nuovo doppio di Allen, “muore” infrangendo la palla di vetro di Quarto potere di Orson Wells, dialoga con i fantasmi di ieri e di oggi ripresi dall’di Federico Fellini, guida la macchina di Un uomo, una donna di Claude Lelouche assieme alla bella Elena Anaya, si lancia in pazze corse in bicicletta e poi sulla spiaggia con la moglie Gina Gershon e il rivale Louis Garrel come in Jules e Jim di François Truffaut, soffoca sotto al lenzuolo di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, compone un dialogo in svedese tra le due donne della sua vita come in Persona di Ingmar Bergman, origlia il fratello Steve Guttenberg e l’amata Tammy Blanchard come ne Il posto delle fragole (sempre Bergman), rimane bloccato nella surreale sala da pranzo de L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, e si permette anche una partita a scacchi con Christoph Waltz versione Morte da Il settimo sigillo (ancora una volta Bergman).

Quello che fa Allen in Rifkin’s Festival è comporre una buffa, accorata, sentita dichiarazione d’amore verso quel cinema che l’ha ispirato e ha fatto crescere la Settima Arte, lasciando ai “suoi” registi il ruolo di coro greco non solo e non tanto nella vicenda, esile esile, del film, quanto piuttosto della sua vita, professionale, personale, artistica, rivedendo se stesso a una distanza di sicurezza sufficiente da prendersi anche bonariamente in giro.

Più che come film a se stante, allora, Rifkin’s Festival assume senso se letto all’interno di un percorso artistico di oltre cinquant’anni, in un panorama prolifico, ricco e, perché no, anche incostante come la filmografia alleniana, l’inevitabile momento in cui l’autore ripensa le proprie ambizioni e omaggia, con la divertita complicità del pubblico cinefilo, i propri maestri.

 

RIFKIN’S FESTIVAL

di Woody Allen.

Con Wallace Shawn, Gina Gershon, Elena Anaya, Louis Garrel.

USA, Spagna, Italia, 2020.

Commedia.