Il film: “Perfect Days”, l’accettazione del proprio ruolo come chiave per l’esistenza
Premiato a Cannes 2023 per la migliore interpretazione maschile, l’ultimo film di Wenders ci offre un cammino di contemplazione spirituale fatto di quotidianità e incarnazione.
Esiste un maestro nel cinema giapponese che forse non tutti conoscono: Yasujiro Ozu. Uno dei suoi estimatori è da sempre Wim Wenders che, nel 2013, a proposito del cinema di Ozu, così scriveva: «Non siamo più abituati a vedere un flusso di immagini che, una dopo l’altra, non hanno niente da nascondere, non celano neanche un “retroscena”, ma intendono dire solo ciò che ci mostrano, e non vogliono nemmeno far credere di avere un significato in più. Siamo abituati a sviluppare per riflesso automatico una sorta di distanza ironica fra noi e gli eventi sullo schermo, ma nei film di Ozu non ci sono appigli per l’ironia o l’astrazione. Al contrario: essi ci chiedono di rinunciare alle nostre aspettative e ai nostri pregiudizi e soprattutto di rivedere la nostra posizione».
Queste parole si attagliano perfettamente anche all’ultimo film di Wenders, Perfect Days, che dell’opera di Ozu è una sorta di compendio affettuoso e di omaggio attualizzato. Non si pensi che Wenders abbia voluto imitare lo stile di Ozu: il taglio delle inquadrature qui è diverso, si usa la macchina a mano, si dà spazio alla dimensione onirica; piuttosto il regista tedesco è riuscito a far sua quella lezione di purezza dello sguardo (ricordiamo che Wenders nel 1985 aveva dedicato il documentario Tokyo-Ga al direttore della fotografia di Ozu): uno sguardo da bambino, carico di uno stupore primordiale, come in un paradiso perduto dove le immagini si identificano con le cose rappresentate.
Assistendo alla quotidianità di Hirayama – un attempato addetto alla pulizia dei gabinetti pubblici di Tokyo – lo spettatore partecipa alla sua vita, dal risveglio all’alba fino al momento di prendere sonno; addirittura assiste anche ai suoi sogni: confuse immagini in bianco e nero tese a una rivelazione ancora da raggiungere. Sono simili alle fotografie che Hirayama scatta nei momenti di pausa dal suo lavoro, dedicate ai “suoi amici” alberi e alla luce del sole che vi penetra tra le foglie: foto che poi seleziona meticolosamente e che conserva in attesa di raggiungere un qualche suo risultato segreto. Vive solo quell’uomo silenzioso, abitudinario, scrupoloso nel lavoro umile perché non è importante cosa si fa, ma come lo si fa: nella manutenzione delle toilette urbane dalle forme stravaganti consiste il suo contributo al bene comune, la sua partecipazione alla vita degli altri.
L’equilibrio di Hirayama (tra bagni rituali, ascolto di classici rock rigorosamente in audiocassetta, lettura serale di classici letterari, da William Faulkner a Patricia Highsmith) è scosso da tre avvenimenti: il licenziamento del suo intemperante giovane collega; l’arrivo improvviso della nipote adolescente scappata dalla ricca famiglia; l’incontro con uno sconosciuto malato terminale in cerca di un senso. Si tratta, sì, di eventi che creano dei sommovimenti (si presti attenzione alle modifiche sonore che Hirayama percepisce), ma che poi vengono riassorbiti in una quotidianità che è saggezza zen, accettazione della vita, continua ricerca di un assoluto dove gli estremi si toccano. Come quando siamo capaci di ridere e piangere allo stesso tempo.
Nei film di Ozu ci sono delle epifanie paradossali: treni di passaggio o ciminiere che fumano; nel film di Wenders c’è la Torre panoramica di Tokyo, sorta di faro rassicurante e punto di orientamento; ci sono gli alberi, i barboni, i visi dei bambini. E c’è la consapevolezza che le nostre ombre, per quanto fuggevoli, lasciano sul cuor della terra una traccia più intensa quando si sovrappongono. Prima che sia subito sera.
PERFECT DAYS Regia: Wim Wenders; sceneggiatura: W. Wenders e Takuma Takasaki; fotografia (colore): Franz Lustig; montaggio: Toni Froschhammer; interpreti: Koji Yakusho, Tokio Emoto, Min Tanaka; distribuzione: Lucky Red; formato: 1,33:1; origine: Giappone-Germania 2023; durata: 123 min