Il film: “Nomadland”, ci vediamo lungo la strada
Si tratta di una distinzione lessicale non da poco: Fern, dopo la chiusura nel 2011 dell’industria dove lavorava il marito, ormai defunto, e il conseguente abbandono della cittadina sortavi attorno, si ritrova a vagare per le lande americane con il suo furgone senza più un tetto fisso, ma non per questo priva di un senso di casa, famiglia, calore domestico. È una donna matura, Fern, provata dalla vita, e d’improvviso entra a far parte di una comunità fluida, precaria ma organizzata: quella di chi si sposta da un luogo all’altro in cerca di lavoro temporaneo per sopravvivere. Anche i padri fondatori degli Stati Uniti erano simili agli attuali nomadi, molti dei quali sono anziani che hanno scelto deliberatamente quel tipo di vita: senza legami, a contatto con la natura, le pietre, le intemperie, le albe e i tramonti. Un’esistenza in cui si deve imparare a fare a meno del superfluo, a gestire i bisogni corporali, a prendersi cura della propria casa su ruote, ma dove si scoprono nuove amicizie, una diversa saggezza e la solidarietà, quella vera.
Il cinema americano è sempre stato legato al racconto on the road, e oggi la regista Chloé Zhao, cinese naturalizzata statunitense, ce lo ripropone con un occhio al disagio sociale causato dalle varie crisi finanziarie e l’altro al percorso interiore della protagonista. La prima dimensione, sottolineata dalla messa in discussione dei capisaldi del capitalismo, è quella meno incisiva nel film che invece, nella seconda parte, si concentra sul cammino spirituale di Fern, in apparenza impassibile osservatrice, ma che capiamo essere in fuga dal passato più che in viaggio verso il futuro. La regista descrive dapprima l’umanità alternativa dei nomadi e i sontuosi paesaggi naturali raccontando fatti minimi, frammentati, senza un vero sviluppo narrativo, accompagnati dalla delicata musica di Ludovico Einaudi. Poi entrano in scena due altri houseless, Dave e Swankie: il primo fa dei timidi tentativi di avvicinamento a Fern e, una volta rientrato nella pur bella famiglia di provenienza, le propone – inascoltato – di restare con lui; la seconda, malata terminale, le lascia un testamento spirituale: quello di chi ha imparato a godere dei doni del creato.
Un cambiamento della vicenda e stilistico del film lo si ha quando, per una volta, Chloé Zhao crea un montaggio non solo descrittivo ma espressivo: Fern recita a un altro girovago, il solitario giovane innamorato, il Sonetto 18 di Shakespeare: «Dovrò io paragonarti a una giornata d’estate? / Tu sei più bello e mite…». Quelle parole proseguono sull’immagine di lui che se ne va e anche sulla sequenza successiva, quando Fern comincia a fare i conti con la propria vita e i propri affetti guardando le diapositive che conserva. Anche la socialità nomade non è sempre garantita: l’augurio che lei fa a fine anno nel campo dove sono sistemati i camper sembra andare a vuoto, e la successiva visita alla cittadina in cui abitava, con le polveri accumulate di un passato ormai morto, probabilmente chiude un itinerario di riappacificazione che ci conduce verso un finale aperto ma, crediamo, indirizzato verso l’affetto e il calore offertole da Dave. D’altra parte era stato lui che, rompendo accidentalmente un piatto, aveva dato inizio all’elaborazione di un lutto personale diventato, poi, collettivo (i sassi nel falò). E sempre lui aveva chiosato: «Una delle cose che amo di più di questa vita è che non c’è un addio definitivo. Ho conosciuto centinaia di persone qui. E io non dico mai addio per sempre, dico solo: ci vediamo lungo la strada».